CMIS – CONFERENCE MONDIALE DES INSTITUTS SECULIERS
CONGRESSO E ASSEMBLEA GENERALE ASSISI
23-28 luglio 2012
(Domus Pacis – Santa Maria degli Angeli, Assisi – Italia)
In ascolto di Dios "Nei solchi della storia"; la secolaritá parla alla consacrazione
- Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI trasmesso dal segretario di Stato. (Cardinal Tarcisio Bertone)
- Messaggio dal Prefetto. (Cardinal João Brazde Aviz)
- Introduzione al Congresso. (Ewa Kusz)
- La consacrazione di Gesù. (Padre Paolo Gamberini SJ)
- Riflessione sulla costante tensione dell’esser cristiano. (Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz)
- Come essere al servizio della chiesa come laici e da laici?. (Pierre Langeron)
- Un nuovo modello di santità come fedeltà a Dio nel mondo. (Mons. Gérald Cyprien Lacroix)
- Nuovi linguaggi e una nuova lingua per la Chiesa. (Ivan Netto)
- Come cambia la vocazione quando cambiano il mondo e noi stessi. (Piera Grignolo)
- Elementi per una sintesi del Congresso. (Giorgio M. Mazzola)
- Statistica degli istituti secolari.
SEGRETERIA DI STATO
Dal Vaticano, 18.07.2012
+Tarcisio Card. Bertone
Segretario di stato
Gentile Signorina,
mi è grato inviare ai membri degli Istituti secolari il presente Messaggio del Santo Padre, in occasione del Congresso che si celebra ad Assisi e che è stato organizzato dalla Conferenza Mondiale degli Istituti Secolari per trattare il tema In ascolto di Dio ‘nei solchi della storia’: la secolarità parla alla consacrazione.
Tale importante tematica pone l’accento sulla vostra identità di consacrati che, vivendo nel mondo la libertà interiore e la pienezza dell’amore che derivano dai consigli evangelici, vi vede uomini e donne capaci di uno sguardo profondo e di buona testimonianza dentro la storia. Il nostro tempo pone alla vita e alla fede interrogativi profondi, ma anche manifesta il mistero della nuzialità di Dio. Infatti, il Verbo che si è fatto carne celebra le nozze di Dio con l’umanità di ogni epoca. Il mistero nascosto da secoli nella mente del Creatore dell’universo (cfr. Ef 3,9) e manifestatosi con l’Incarnazione, è proiettato verso il compimento futuro, ma già innestato nell’oggi, come forza redentrice e unificante.
Dentro l’umanità in cammino, animati dallo Spirito Santo, potete cogliere i segni discreti e a volte nascosti che indicano la presenza di Dio. Solo in forza della grazia che è dono dello Spirito potete scorgere nei sentieri spesso tortuosi della vicende umane l’orientamento verso la pienezza della vita sovrabbondante. Un dinamismo che rappresenta, al di là delle apparenze, il senso vero della storia secondo il disegno di Dio. La vostra vocazione è di stare nel mondo assumendone tutti i pesi e gli aneliti, con uno sguardo umano che coincida sempre più con quello divino, da cui sgorga un impegno originale, peculiare, fondato sulla consapevolezza che Dio scrive la sua storia di salvezza sulla trama delle vicende della nostra storia.
In questo senso, la vostra identità dice anche un aspetto importante della vostra missione nella Chiesa: aiutarla cioè a realizzare il suo essere nel mondo, alla luce delle parole del Concilio Vaticano II: “Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l’opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito (Gaudium et Spes, 3). La teologia della storia è parte essenziale della nuova evangelizzazione, perché gli uomini del nostro tempo hanno bisogno di ritrovare uno sguardo complessivo sul mondo e sul tempo, uno sguardo veramente libero e pacifico (cfr. Benedetto XVI, Omelia nella S. Messa per la nuova evangelizzazione, 16 ottobre 2011). È sempre il Concilio a ricordarci come la relazione tra Chiesa e mondo vada vissuta nel segno della reciprocità, per cui non è solo la Chiesa a dare al mondo, contribuendo a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia, ma è anche il modo a dare alla Chiesa, così che essa possa meglio comprendere se stessa e meglio vivere la sua missione (cfr. Gaudium ed Spes, 40-45).
I lavori che vi accingete a svolgere si soffermano poi sullo specifico della consacrazione secolare alla ricerca di come la secolarità parli alla consacrazione, di come nelle vostre vite i tratti caratteristici di Gesù – vergine, povero ed obbediente – acquistino una tipica e permanente “visibilità” in mezzo al mondo (cfr. Esort. Ap. Vita Consecrata, 1). Sua Santità desidera indicare tre ambiti su cui puntare la vostra attenzione.
In primo luogo, la donazione totale della vostra vita come risposta a un incontro personale e vitale con l’amore di Dio. Voi che avete scoperto che Dio è tutto per voi, avete deciso di dare tutto a Dio e di farlo in un modo peculiare: restando laici tra i laici, presbiteri tra i presbiteri. Ciò richiede una particolare vigilanza perché i vostri stili di vita manifestino la ricchezza, la bellezza e la radicalità dei consigli evangelici.
In secondo luogo, la vita spirituale. Punto fermo e irrinunciabile, riferimento certo per alimentare quel desiderio di fare unità in Cristo che è tensione di tutta l’esistenza di ogni cristiano e tanto più di chi risponde a una chiamata totale di dono di sé. Misura della profondità della vostra vita spirituale non sono le tante attività, che pure richiedono il vostro impegno, ma piuttosto la capacità di cercare Dio nel cuore di ogni avvenimento e di riportare a Cristo ogni cosa. È il “ricapitolare” in Cristo tutte le cose, di cui parla l’apostolo Paolo (cfr. Ef 1,10). Solo in Cristo, Signore della storia, tutta la storia e tutte le storie trovano senso e unità.
Nella preghiera, dunque, e nell’ascolto della Parola di Dio si alimenti quest’anelito. Nella celebrazione eucaristica ritrovate la radice del farvi pane d’Amore spezzato per gli uomini. Nella contemplazione, nello sguardo di fede illuminato dalla grazia, si radichi l’impegno a condividere con ogni uomo e ogni donna le domande profonde che abitano ciascuno, per costruire speranza e fiducia.
In terzo luogo, la formazione, che non trascura nessuna età anagrafica, perché si tratta di vivere la propria vita in pienezza educandosi a quella saggezza che è consapevole sempre della creaturalità umana e dalla grandezza del Creatore. Ricercate contenuti e modalità di una formazione che vi renda laici e presbiteri capaci di lasciarsi interrogare dalle complessità che il mondo oggi attraversa, di restare aperti alle sollecitazioni provenienti dalla relazione con i fratelli che incontrate sulle vostre strade, di impegnarvi in un discernimento della storia alla luce della Parola di Vita. Siate disponibili a costruire, insieme a tutti i cercatori della verità, percorsi di bene comune, senza soluzioni preconfezionate e senza paura delle domande che restano tali, ma pronti sempre a mettere in gioco la vostra vita, nella certezza che il chicco di grano, caduto nella terra, se muore porta molto frutto (cfr. Gv 12,24). Siate creativi, perché lo Spirito costruisce novità; alimentate sguardi capaci di futuro e radici salde in Cristo Signore, per saper dire anche al nostro tempo l’esperienza d’amore che sta a fondamento della vita di ogni uomo. Abbracciate con carità le ferite del mondo e della Chiesa. Soprattutto vivete una vita gioiosa e piena, accogliente e capace di perdono, perché fondata su Gesù Cristo, Parola definitiva di Amore di Dio per l’uomo.
Mentre vi indirizza queste riflessioni, il Sommo Pontefice assicura per il vostro Congresso e la vostra Assemblea un particolare ricordo nella preghiera, invocando l’intercessione della Beata Vergine Maria, che ha vissuto nel mondo la perfetta consacrazione a Dio in Cristo, e di cuore invia a Lei e a tutti i partecipanti l’implorata Benedizione Apostolica.
Nell’unire anche personalmente ogni miglior auspicio, Profitto della circostanza per confermarmi con sensi di distinta stima.
N. CMIS: Il testo originale è in italiano.
CMIS – CONFERENCE MONDIALE DES INSTITUTS SECULIERS
CONGRESSO E ASSEMBLEA GENERALE
ASSISI – 23-28 luglio 2012 (Domus Pacis – Santa Maria degli Angeli, Assisi – Italia)
In ascolto di Dios "Nei solchi della storia": la secolaritá parla alla consacrazione
GLI ISTITUTI SECOLARI E LA COMUNIONE ECCLESIALE
Joao Braz Cardinale DE AVIZ
Prefetto della CIVCSVA
Carissime Consacrate laiche e Consacrati laici e sacerdoti degli Istituti secolari,
sono felice di essere qui tra voi all’inizio di queste giornate così dense di attese. Giornate che vi vedono impegnati prima nel Congresso, un luogo di ascolto, di confronto e di elaborazione e poi nell’Assemblea. Un appuntamento particolarmente importante quest’anno, nel quale approverete i nuovi Statuti. Il mio augurio a questo proposito è che affondare lo sguardo nelle norme che regolano il vostro percorso comune per delinearne le forme, vi aiuti a vivere in pienezza la comunione, non per annullare le differenze, ma per camminare insieme, ciascuno con il proprio passo, dentro lo stesso solco: quello della secolarità consacrata. Solo a questo prezzo, perché certo si tratta di un percorso complesso, potranno nascere frutti di bene.
La mia presenza è espressione di quella comunione che lega la Conferenza mondiale degli Istituti secolari al Santo Padre attraverso la Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica. Si tratta di quel Sentire cum Ecclesia al quale l’Esortazione Apostolica Vita Consecrata ha dedicato il numero 46 del quale rileggo con voi le prime parole: “Un grande compito è affidato alla vita consacrata anche alla luce della dottrina sulla Chiesa-comunione, con tanto vigore proposta dal Concilio Vaticano II. Alle persone consacrate si chiede di essere davvero esperte di comunione e di praticarne la spiritualità, come «testimoni e artefici di quel “progetto di comunione” che sta al vertice della storia dell'uomo secondo Dio». Il senso della comunione ecclesiale, sviluppandosi in spiritualità di comunione, promuove un modo di pensare, parlare ed agire che fa crescere in profondità e in estensione la Chiesa. La vita di comunione, infatti, «diventa un segno per il mondo e una forza attrattiva che conduce a credere in Cristo [...]. In tal modo la comunione si apre alla missione, si fa essa stessa missione», anzi «la comunione genera comunione e si configura essenzialmente come comunione missionaria».
Riprendo qui le parole del Santo Padre Benedetto XVI rivolte alla Signorina Ewa Kusz, presidente del Consiglio esecutivo, inviate attraverso il Secretario di Stato +Tarcisio Cardinale Bertone, appena lette:
“I lavori che vi accingete a svolgere si soffermano poi sullo specifico della consacrazione secolare, alla ricerca di come la secolarità parli alla consacrazione, di come nelle vostre vite i tratti caratteristici di Gesù – vergine, povero ed obbediente – acquistino una tipica e permanente “visibilità” in mezzo al mondo (cfr Esort. ap. Vita consacrata, 1). Sua Santità desidera indicare tre ambiti su cui puntare la vostra attenzione.
In primo luogo, la donazione totale della vostra vita come risposta a un incontro personale e vitale con l’amore di Dio. Voi che avete scoperto che Dio è tutto per voi, avete deciso di dare tutto a Dio e di farlo in un modo peculiare: restando laici tra i laici, presbiteri tra i presbiteri. Ciò richiede una particolare vigilanza perché i vostri stili di vita manifestino la ricchezza, la bellezza e la radicalità dei consigli evangelici.
In secondo luogo, la vita spirituale. Punto fermo e irrinunciabile, riferimento certo per alimentare quel desiderio di fare unità in Cristo che è tensione di tutta l’esistenza di ogni cristiano e tanto più di chi risponde a una chiamata totale di dono di sé. Misura della profondità della vostra vita spirituale non sono le tante attività, che pure richiedono il vostro impegno, ma piuttosto la capacità di cercare Dio nel cuore di ogni avvenimento e di riportare a Cristo ogni cosa. E’ il “ricapitolare” in Cristo tutte le cose, di cui parla l’apostolo Paolo (cfr Ef 1,10). Solo in Cristo, Signore della storia, tutta la storia e tutte le storie trovano senso e unità.
Nella preghiera, dunque, e nell’ascolto della Parola di Dio si alimenti quest’anelito. Nella celebrazione eucaristica ritrovate le radici del farvi pane d’Amore spezzato per gli uomini. Nella contemplazione, nello sguardo di fede illuminato dalla grazia, si radichi l’impegno a condividere con ogni uomo e ogni donna le domande profonde che abitano ciascuno, per costruire speranza e fiducia.
In terzo luogo, la formazione, che non trascura nessuna età anagrafica, perché si tratta di vivere la propria vita in pienezza educandosi a quella saggezza che è consapevole sempre della creaturalità umana e dalla grandezza del Creatore. Ricercate contenuti e modalità di una formazione che vi renda laici e presbiteri capaci di lasciarsi interrogare dalla complessità che il mondo oggi attraversa, di restare aperti alle sollecitazioni provenienti dalla relazione con i fratelli che incontrate sulle vostre strade, di impegnarvi in un discernimento della storia alla luce della Parola di Vita. Siate disponibili a costruire, insieme a tutti i cercatori della verità, percorsi di bene comune, senza soluzioni preconfezionate e senza paura delle domande che restano tali, ma pronti sempre a mettere in gioco la vostra vita, nella certezza che il chicco di grano, caduto nella terra, se muore porta molto frutto (cfr Gv 12,24). Siate creativi, perché lo Spirito costruisce novità; alimentate sguardi capaci di futuro e radici salde in Cristo Signore, per saper dire anche al nostro tempo l’esperienza d’amore che sta a fondamento della vita di ogni uomo. Abbracciate con carità le ferite del mondo e della Chiesa. Soprattutto vivete una vita gioiosa e piena, accogliente e capace di perdono, perché fondata su Gesù Cristo, Parola definitiva di Amore per l’uomo” (Segreteria di Stato, Lettera del 18.09.2012, n. 201.643).
E’ proprio sulla comunione ecclesiale che vorrei soffermarmi oggi con voi. Non per togliere importanza alla specifica tematica del vostro Congresso, sulla quale avrete modo di riflettere in questi giorni, ma quasi come contesto, come orizzonte di senso, in cui inserire le vostre riflessioni.
La vostra vocazione non ha significato se non partendo dal suo radicamento nella Chiesa, perché la vostra missione è missione della Chiesa. Nella preghiera sacerdotale contenuta nel Vangelo di Giovanni, l’intensità della relazione tra Padre e Figlio fa tutt’uno con la forza della missione d’amore. È realizzando questa comunione di amore che la Chiesa diventa segno e strumento capace di creare comunione con Dio e fra gli uomini (cf Lumen Gentium 1).
Per questo già Paolo VI vi esortava: “Non vi lasciate mai sorprendere, neppure sfiorare dalla tentazione oggi troppo facile, che sia possibile un'autentica comunione con Cristo senza una reale armonia con la comunità ecclesiale retta dai legittimi pastori. Sarebbe ingannevole e illusorio. Che cosa potrebbe contare un singolo o un gruppo, pur nelle intenzioni soggettivamente più alte e perfette, senza questa comunione? Cristo ce l'ha chiesta come garanzia per ammetterci alla comunione con Lui, allo stesso modo che ci ha chiesto di amare il prossimo come documentazione del nostro amore per Lui” (Paolo VI, Allocuzione ‘Ancora una volta’ ai Superiori degli Istituti Secolari, 20 settembre 1972).
E ancor più accoratamente Benedetto XVI vi ripeteva: “La Chiesa ha bisogno anche di voi per dare completezza alla sua missione …Siate seme di santità gettato a piene mani nei solchi della storia”. Non c’é comunione che non apra continuamente alla missione, né missione che non germogli dalla comunione. I due aspetti toccano il cuore vivo e palpitante di tutta la Chiesa, permettendole una nuova lettura della realtà, una ricerca di significato e magari anche di soluzioni che vogliono essere risposta certo parziale ma di un cuore sempre più autenticamente evangelico.
Un’altra considerazione mi spinge nella scelta di questo tema ed è la seguente: una delle prime preoccupazioni che mi sono state presentate come Prefetto negli incontri con gli Istituti secolari è stata “nella Chiesa siamo poco conosciuti o conosciuti male”.
Il legame profondo che c’è tra conoscenza e comunione mi sembra fondamentale in un duplice senso. Solo attraverso la conoscenza, che significa ascolto, attenzione, sintonia di cuore, può nascere la comunione che a sua volta, proprio perché va alla radice dell’essenziale e dilata la capacità di incontro, genera autentica conoscenza.
Ecco perché, omettendo ora il pensare alla comunione all’interno di ogni Istituto (argomento che meriterebbe una riflessione a parte) mi soffermo su alcuni spunti riferiti alla comunione ecclesiale. Lo faccio partendo da quel Documento che la Sacra Congregazione dei Religiosi e gli Istituti Secolari inviò alle Conferenze Episcopali dopo la riunione Plenaria tenutasi nel mese di maggio del 1983.
Ripercorrendo le origini di questa vocazione ho potuto constatare come da subito, nella nuova forma riconosciuta giuridicamente con la Costituzione Apostolica Provida Mater, sono confluite realtà profondamente diverse tra loro, soprattutto a motivo della differente finalità apostolica. Sono stati proprio i Convegni organizzati da quella che sarebbe diventata poi la Conferenza Mondiale degli Istituti secolari che hanno permesso una conoscenza vicendevole – leggo nel suddetto documento – che ha portato gli Istituti ad accettare la diversità (il cosiddetto pluralismo), ma con l’esigenza di chiarire i limiti di questa stessa diversità ( Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari, Gli Istituti secolari: la loro identità e la loro missione, 3-6 maggio 1983 n. 4).
Mi sembra questo un punto fondamentale. Quest’opera di accoglienza reciproca credo sia ancora in atto e non bisogna perdere di vista l’importanza di mantenere desta la tensione ad approfondire questo percorso. Come anche continua il cammino di comprensione di quelli che il documento, lo abbiamo appena sentito, definisce i limiti di questa diversità. Limiti, o anche confini, che hanno radice tanto nell’essenza dello Spirito che sempre rinnova la terra con doni nuovi, quanto nel momento che la Chiesa sta vivendo. E’ un contesto quello attuale nel quale, nella prospettiva anche dell’Anno della Fede voluto da Benedetto XVI nei 50 anni del Concilio Vaticano II, popolo di Dio, consacrati, presbiteri, ma anche pastoralisti, canonisti, tutti sono chiamati a collaborare per costruire insieme percorsi nuovi di evangelizzazione e di compagnia all’uomo del nostro tempo.
Comprendete bene che un simile discernimento richiede da voi un atteggiamento fondamentale: quello di non avere la pretesa di conoscere la vera (e quindi unica) identità di un Istituto secolare. Occorre invece una disponibilità di fondo che vi permetta di scoprire come l’altro declini, nella propria spiritualità, con la propria missione e modalità di vita, la sintesi tra consacrazione e secolarità; come nei diversi ambiti sociali culturali ed ecclesiali sia possibile manifestare, pur se in modo differente, l’originalità e l’unicità della vostra vocazione.
Solo attraverso questa dinamica di ascolto e accoglienza, che richiede un sapiente discernimento, vi troverete tutti più ricchi perché potrete sperimentare la grandezza di Dio, che, per manifestare il suo grande amore al mondo, non si fa chiudere nei nostri piccoli percorsi, ma sa suscitare risposte che a noi possono sembrare anche stravaganti, ma che certo hanno qualcosa da dire e da dare alla vita di ciascuno. Partendo dunque da quello che vi accomuna potrete confrontarvi non solo sulle diversità, ma anche sulle sfide sempre nuove che il mondo pone in modo particolare a voi, chiamati a spendere la vostra vita in una “terra di confine”. Di fronte a problematiche nuove siete sollecitati a cercare nuovi percorsi che dicono l’attualità della vostra missione, sempre pronti a rimetterli in discussione, nel confronto, quando i tempi e i luoghi richiedono nuove elaborazioni.
Mi viene da pensare a una delle domande che mi sono state rivolte nel mio incontro con la Conferenza Polacca degli Istituti Secolari che si è tenuto nel mese di novembre del 2011. Mi è stata chiesta una riflessione circa la necessità che il membro di un istituto secolare mantenga la discrezione sulla propria vocazione. Più che una risposta è seguito un invito ai singoli Istituti a confrontarsi, al loro interno e tra loro, sulle motivazioni di una simile discrezione, a chiedersi: “Perché se ne è sentito il bisogno? Cosa vuol dire alla Chiesa e al Mondo?”. Le risposte possono essere diverse per ogni istituto, per ogni nazione e per ogni epoca storica, ma per verificare l’attualità e l’efficacia di uno strumento occorre partire sempre dal fondamento, dal valore che vuole realizzare ed esprimere.
Ecco questo credo sia un possibile metodo per attivare quella conoscenza che può portare alla comunione e che scaturisce dalla comunione.
Dunque, ascoltarsi reciprocamente, senza precomprensioni, sia all’interno dei singoli istituti che nei luoghi propri di confronto, per raggiungere una meta che, lo sapete benissimo, è solo una tappa nel cammino dello Spirito!
Sappiate che in quest’opera non siete soli: la Chiesa, attraverso la parole dei Pontefici e il servizio della Congregazione che rappresento, vi accompagna.
E qui vi propongo un altro aspetto che è quello di una comunione con la Chiesa locale. Anche qui riprendo le parole del Beato Giovanni Paolo II a conclusione della Plenaria sopra citata: “Se ci sarà uno sviluppo e un rafforzamento degli Istituti Secolari, anche le Chiese locali ne trarranno vantaggio”.
Segue un duplice invito rivolto agli Istituti e ai Pastori: Pur nel rispetto delle loro caratteristiche, gli Istituti Secolari devono comprendere e assumere le urgenze pastorali delle Chiese particolari, e confermare i loro membri a vivere con attenta partecipazione le speranze e le fatiche, i progetti e le inquietudini, le ricchezze spirituali e i limiti, in una parola: la comunione della loro Chiesa concreta.
E ancora, deve essere una sollecitudine dei Pastori riconoscere e richiedere il loro apporto secondo la natura loro propria. In particolare, incombe ai Pastori un’altra responsabilità: quella di offrire agli Istituti Secolari tutta la ricchezza dottrinale, di cui hanno bisogno. Essi vogliono far parte del mondo e nobilitare le realtà temporali ordinandole ed elevandole perché tutto tenda a Cristo come a un capo (cfr. Ef l, l0). Perciò, si dia a questi Istituti tutta la ricchezza della dottrina cattolica sulla creazione, l'incarnazione e la redenzione, affinché possano fare propri i disegni sapienti e misteriosi di Dio sull'uomo, sulla storia e sul mondo.
Oggi la domanda di verifica è d’obbligo: a che punto è questo percorso?
Naturalmente in questo luogo mi rivolgo a voi, sollecitando una riflessione sul cammino fatto da parte vostra. Ma è una domanda rivolta anche ai Pastori invitati a favorire tra i fedeli una comprensione non approssimativa o accomodante, ma esatta e rispettosa delle caratteristiche qualificanti …di questa difficile, ma bella vocazione. (sono sempre parole rivolte dal Beato Giovanni Paolo II alla Plenaria)
La comunione di cui parliamo, non lo dimentichiamo mai, è un dono dello Spirito Santo, crea unità nell’amore e nella reciproca accettazione delle diversità. Prima di traduzioni concrete a livello comunicativo e strutturale, essa richiede un cammino spirituale senza il quale – ribadiva chiaramente il Beato Giovanni Paolo II – non ci facciamo illusioni, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz'anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita. (Novo millennio ineunte, n. 43).
Ciascuno di voi si senta interpellato, come singolo, come Istituto e come Conferenza, a individuare strumenti e modalità che possano far sì che l’ideale di una piena comunione ecclesiale prospettata in tanti documenti della Chiesa, diventi comunione reale dentro la storia.
Anche qui prioritario è un atteggiamento di fondo: non cedete mai alla tentazione della rinuncia. A volte può accadere che i vostri tentativi non portino frutto e il cammino non proceda: anche in questo caso, non abbandonate la meta! Non fermatevi dinanzi agli insuccessi, ma da questi traete nuova forza per attivare la creatività; sappiate passare dal risentimento alla disponibilità, dalla diffidenza all'accoglienza. Portate le ferite alla comunione ecclesiale nella preghiera, leggete con verità le vostre responsabilità, non lasciate nulla d'intentato e nel discernimento riprendete il faticoso cammino verso la comunione.
Nel mese di marzo di quest’anno in Congregazione abbiamo avuto un incontro tra i Superiori e il Consiglio della CMIS nel quale il Consiglio ha presentato alcuni argomenti da affrontare insieme riguardanti tre tematiche così suddivise: La conoscenza reciproca; I Criteri di discernimento dell’identità degli Istituti secolari; Il ruolo della CMIS.
Come Dicastero abbiamo accolto molto volentieri la proposta indicando una possibile modalità di attuazione: che sia questa Assemblea a individuare il primo aspetto su cui avviare una riflessione comune; ad indicare gli interlocutori con il Dicastero, e soprattutto a stabilire in quale modalità tutti gli Istituti possano partecipare alla riflessione. Un esempio di comunione ecclesiale che stiamo costruendo!
Rivolgo infine a tutti voi un ulteriore invito: siate promotori di comunione con le altre espressioni di vita consacrata e le altre realtà ecclesiali che condividono con voi alcuni aspetti della vostra identità o missione. Penso alle altre forme di vita consacrata con le quali siete accomunati dalla consacrazione per la professione dei consigli evangelici in senso canonico. Penso a quelle associazioni e ai movimenti con i quali siete accomunati per una presenza evangelica nel mondo, pur conservando una missione e uno stile di vita profondamente differenti. E’ una proposta che potrebbe sembrarvi audace, ma che è suggerita dalla vostra stessa vocazione che vi porta a sperimentare già all’interno degli Istituti la ricchezza della diversità, e che fa del vostro vivere un laboratorio di dialogo.
Disponetevi a conoscere queste realtà e soprattutto a lasciarvi conoscere da esse: non avete nulla da cui difendervi, avete solo da mostrare la bellezza della vostra vocazione che insieme a quelle di tanti altri fratelli e sorelle, è espressione della ricchezza e della vivacità del’Amore trinitario. Quell’Amore sorprendete e creativo, che supera la nostra capacità di immaginazione, e che fa della Chiesa un magnifico giardino dove la moltitudine di fiori e piante consente a ogni uomo di trovare e di sperimentare, nella varietà dei profumi e dei colori, la profondità e la gioia di una vita piena e buona.
NB.: Ringrazio la collaborazione della Dottoressa Daniela Leggio, officiale della CICSVA per la ricerca elaborata intorno ai documenti sugli Istituti secolari.
N. CMIS: Il testo originale è in italiano.
Ewa Kusz – Presidente CMIS
Venite da diversi paesi, e sono diverse anche le situazioni culturali, politiche e religiose nelle quali vivete, lavorate e andate avanti con l’età. In tutte quelle situazioni, ricercate la Verità, la rivelazione umana di Dio nella vita. Sappiamo che la strada è lunga, che il presente è tormentato, ma che la fine è certa. Annunciate la bellezza di Dio e del creato. Come Cristo, obbedite all’amore, siate uomini e donne miti e misericordiosi, capaci di percorrere le vie del mondo facendo soltanto il bene. Possano le vostre vite porre le Beatitudini nel loro centro, contraddicendo così la logica umana, per esprimere una fiducia incondizionata in Dio che vuole la felicità dell’uomo. La Chiesa ha bisogno anche di voi affinché la sua missione sia completa. Siate seme di santità gettato a piene mani nei solchi della storia. Radicati nell’azione gratuita ed efficace con la quale lo Spirito del Signore guida le vicende umane, possiate dare frutti di fede autentica, scrivendo con la vostra vita e con la vostra testimonianza parabole di speranza, e scrivendole con le opere suggerite dalla „fantasia della carità” (Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Novo millenio ineunte, N. 50) .
Ho citato le parole di Benedetto XVI del 2007 in quanto sono state fonte d’ispirazione per il tema del Congresso che stiamo iniziando. Eccole: In ascolto di Dio « nei solchi della storia » : la secolarità parla alla consacrazione .
La mia introduzione al Congresso e alla sua tematica sarà divisa in due parti. Innanzitutto voglio presentare – o ricordare ad alcuni – le statistiche riguardanti gli Istituti Secolari. Mi avvalgo di uno studio effettuato dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica nella rivista Sequela Christi del 2011. Nella seconda parte, introdurrò la tematica del Congresso che ho appena citato.
1. [STATISTICHE]
2. INTRODUZIONE ALLA TEMATICA DEL CONGRESSO
È opportuno esaminare il contesto ecclesiale nel quale si svolge questo IX° Congresso Mondiale degli Istituti Secolari, e l’Assemblea Generale che seguirà. Tra non molto, dal 7 al 28 ottobre 2012, si terrà la XIIIa Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dedicata alla « Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana ». Durante il Sinodo, l’11 ottobre inizierà l’Anno della Fede indetto da Benedetto XVI in commemorazione del 50° anniversario dell’apertura del Concilio ecumenico Vaticano II e del 20° anniversario della pubblicazione del Catechismo della Chiesa cattolica. La tematica del nostro Congresso si inserisce in quegli avvenimenti che mettono in rilievo il primato della fede nella vita di ogni cristiano, primato vissuto e realizzato negli ambiti della vita e del lavoro. Ciò ci invita a soffermarci sullo stato della nostra fede, sul nostro modo di essere testimoni del Vangelo nel mondo odierno e di ascoltare, attenti e preoccupati, addiritura affascinati, tutto quello che Dio ci dice attraverso questo mondo “attuale”. Anche Assisi ci invita a fare questa riflessione nel clima della preoccupazione per la fede e per l’apertura al mondo creato e riscattato dall’Amore. Assisi, dove è nato S. Franceso e dove attende la risurrezione, porta costantemente l’alito fresco del Vangelo nella Chiesa e nella società.
Primato della fede
Dobbiamo chiederci perché siamo nel mondo, perché questo aspetto della nostra vita è un elemento essenziale della nostra vocazione. Ci facciamo questa domanda non perché, vivendo su questa terra, non abbiamo altra via d’uscita, ma perché il mondo e il fatto di esserci costituiscono per noi un valore e un compito. Papa Benedetto XVI, nel Motu Proprio Porta fidei (6), indica tra l’altro questo compito del cristiano : “con la loro stessa esistenza nel mondo i cristiani sono infatti chiamati a far risplendere la Parola di verità che il Signore Gesù ci ha lasciato”. Si può desumere che l’unico motivo per essere nel mondo, in mezzo al mondo, è quello di intraprendre costantemente e sempre più pienamente “un’autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo” (ibid.).
Ecco quindi nuove domande per la nostra riflessione nel contesto del primato della fede : come deve essere la nostra consacrazione in mezzo al mondo ?
Ammettiamo che essa deve essere secondo il modello di Cristo inviato dal Padre per salvare il mondo (cfr. Gv 3, 17). Il tema della consacrazione di Gesù nel mondo e per il mondo sarà discusso nel primo intervento da un teologo italiano, Prof. Paolo Gamberini SJ.
Cerchiamo ora di riflettere un attimo sul modo concreto di essere nel mondo. La nostra riflessione è introdotta da una domanda:
Il mondo cristiano o il cristiano nel mondo ?
La distinzione tra la concezione della Chiesa che cerca di costruire un mondo cristiano e la concezione della Chiesa che opera affinché ci siano in questo mondo dei cristiani autentici e santi, non è un gioco linguistico né un esercizio teorico. La risposta alla domanda: quale di queste due concezioni facciamo nostra e per la quale ci impegnamo?, cambia totalmente il modo di esistere della Chiesa nel mondo odierno e porta conseguenze importanti per la nostra vocazione di laici consacrati.
Durante più di dieci secoli si è cercato di costruire un mondo cristiano in Europa. Tale processo è stato iniziato dall’Editto di Milano che riconosceva il cristianesimo come religione dell’Impero romano. Quella tendenza ad unire la religione con il potere, una specie di alleanza tra il trono e l’altare, sembrava allora ovvia: poiché la salvezza era il bene supremo, occorreva fare di tutto per renderla accessibile a tutti. Frutto di quel modo di vedere fu il principio vigente durante secoli in molti paesi europei – cuius regio eius religio. Esistere fuori dalla Chiesa equivaleva ad esistere fuori dalla comunità locale ; c’erano luoghi e periodi in cui il potere laico salvaguardava i principi predicati dalla Chiesa e faceva in modo che fossero applicati dai sudditi. In altre parole, si praticava incontestabilmente qualcosa di paragonabile a quello che si verifica oggi in molti paesi islamici.
Il santo desiderio di salvezza universale, unitamente con un desiderio meno santo e persino con il postulato che le norme e i principi ecclesiali fossero salvaguardati dalla legge di Stato, il desiderio di costruire un mondo cristiano è sempre presente e non caratterizza un’unica cultura, un unico continente né un gruppo particolare nella Chiesa. Accade anche molte volte che affiori nei nostri desideri perché, nella sua essenza stessa, sembra giusto in quanto è strettamento legato con il desiderio di salvezza, dunque di un bene supremo, per gli altri, per la società, per la nazione... Eppure l’obiettivo sembra talvolta confondersi con il metodo. Non solo vogliamo per forza salvare il mondo intero, ma lo facciamo anche in un solo modo, il migliore ai nostri occhi. I desideri di una persona concreta perdono la loro importanza – sappiamo meglio dell’altro di cosa ha bisogno perché è smarrito e ignora quello che è buono per lui. Occorre non solo dirglielo, ma bisogna anche organizzare la sua vita nella sua patria terrena, in modo tale che non possa smarrirsi. Adottiamo spesso l’atteggiamento di un genitore nei confronti di un bambino o di un tutore nei confronti di una persona dalla capacità limitata, dimenticando che abbiamo di fronte una persona adulta, consapevole di se stessa. Una persona che ha il proprio tempo e il proprio processo di maturazione, a volte molto diverso dal nostro. Nel suo amore paziente, Dio aspetta; e noi? Quello che cerchiamo di esigere anche all’interno della comunità della Chiesa è a volte anche un insieme di pratiche religiose, una formazione stabilita in modo molto rigido, ecc., nei nostri Istituti. Può trattarsi anche di un elenco di comportamenti, di principi morali e sociali “che sono gli unici giusti” e che devono costringere tutti, indipendentemente dal fatto che gli altri si dichiarino credenti o meno, e che cerchiamo di esigere (verbalmente o meno) nei nostri ambiti di lavoro o nella nostra cerchia.
In questa concezione del mondo cristiano, la persona perde la sua libertà e la sua relazione personale con Dio. L’appartenenza a un gruppo cristiano, anche a un Istituto Secolare, l’osservanza delle regole, la recitazione di molte preghiere non fa di una persona un cristiano, ma soltanto il membro di un gruppo sociale dotato di principi, di norme, di prassi e di strutture determinate.
Quello che fa sì che siamo o diventiamo cristiani, è un autentico legame con Cristo, un legame assunto e approfondito giorno per giorno. Questo legame costruisce l’identità cristiana la quale, a sua volta, suscita atteggiamenti cristiani concreti nei quali si può trovare un comune denominatore – la realizzazione del comandamento della carità. L’obiettivo non è quindi quello di fare in modo che la legge intorno a me, in tutte le sue manifestazioni, sia “cristiana”, che aiuti me stesso e gli altri ad osservare i valori evangelici. Ciò che conta è che noi, credenti, a maggior ragione come membri di Istituti Secolari, siamo cristiani. Un cristiano è qualcuno che osserva i principi derivanti dal Vangelo, che li vive nella comunità e li testimonia nella società, perché questi principi rappresentano un valore per lui. Di fatto, vuole imitare Cristo, essere vicino a Lui. Certo, un cristiano desidera invitare tutti gli altri ad imitare Cristo, ma lo fa nello stesso modo di Gesù : “se vuoi...”, “vieni a vedere...”.
È significativo il fatto che Benedetto XVI, il 28 agosto 2011, nell’omelia rivolta ai partecipanti ad un incontro dei suoi ex studenti, centrato sul tema della nuova evangelizzazione, abbia ritenuto necessario dare una chiara testimonianza di fede, un irradiamento di fede. E per dare una testimonianza di fede, si comincia non dalla parola, dalla proclamazione, ma dall’ascolto e dalla comprensione della situazione dell’uomo nel mondo odierno, del suo linguaggio e della sua ricerca, della sua fame di Dio e del modo in cui questa fame si esprime. Non si può ascoltare senza prestare attenzione alla persona, al mondo, senza entrare, come l’Incarnazione, in questo mondo per condividere con lui tutto ciò che è umano, salvo il peccato, per condividere le sue preoccupazioni e le sue speranze. E questo genera una tensione. La Prof.ssa Hanna Barbara Gerl-Falkovitz parlerà della vocazione del cristiano nel mondo, di quella tensione costante legata al fatto di essere cristiani.
Se non è un mondo cristiano, come rispondere alle chiamate della nuova evangelizzazione ? Come portare il Vangelo nel mondo, che è il luogo dove si realizza la nostra vocazione?
L’uomo – la via della Chiesa
La risposta più semplice mi sembra quella data dal Beato Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica, Redemptor hominis: l’uomo è la via della Chiesa. Tanto quello che, come il fratello maggiore della parabola del figliol prodigo, rimane sempre con il Padre ma non è capace di rallegrarsi del ritorno del fratello, quanto il più giovane, che se n’era andato per cercare la propria strada e aveva bisogno di tempo per tornare a casa (cfr. Lc 15, 11-32). L’uno e l’altro, ciascuno necessita di un’attenzione diversa da parte del Padre, di un approccio diverso, di una preoccupazione diversa, di un accompagnamento diverso. In un mondo cristiano così com’era stato concepito, il più giovane non avrebbe trovato il suo posto. Anche se era tornato con i propri mezzi, pagando un prezzo amaro per il suo allontanamento. Sarebbe probabilmente rimasto segnato per sempre dalla sua partenza e dal suo smarrimento. La nostra vocazione ci spinge proprio verso quelle persone che rimangono fuori dalle strutture della Chiesa; ci indica luoghi di incontri “nel cortile dei Gentili”. Papa Benedetto XVI ce lo ricorda spesso e il cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Consiglio Pontificio per la Cultura, lo promuove.
A volte ci pare che la Chiesa, nella sua dimensione gerarchica volta verso movimenti ecclesiali o verso nuove comunità, espansivi e molto dinamici, sembra dimenticare o sottovalutare gli Istituti Secolari. Sembra andare “di moda” un altro modo di evangelizzare o di incamminarsi sulle vie del mondo per annunciare Cristo, perché a quanto pare è attraente, fa impressione, raccoglie successi. Dovremmo rallegrarci che Dio susciti nella storia vari carismi il cui scopo è quello di rinnovare la Chiesa. Spetta a noi essere fedeli alla nostra vocazione immersa nel mistero dell’Incarnazione. Farò ora un breve excursus personale. Nel febbraio di quest’anno ho partecipato a un simposio internazionale su Verso la guarigione e rinnovamento, dedicato agli abusi sessuali all’interno della Chiesa. È stato un momento intenso, una celebrazione penitenziale per i peccati di abusi nei confronti delle vittime. È iniziato con la contemplazione del mistero dell’Incarnazione. Nella chiesa di S. Ignazio a Roma, nel buio, con l’accompagnamento di una bella musica, abbiamo guardato diapositive: la bellezza del mondo, del creato, poi la destruzione: guerre, danni, dolore, sofferenza. Uno sguardo sul mondo, colmo di tensioni, uno sguardo/invito ad entrare nella prospettiva della Santissima Trinità; si è concluso con l’invio di Gesù al mondo, tanto amato da Dio. Si può dire che questa è la fonte che definisce il nostro stile di vita, quando diciamo con Isaia : “Eccomi, manda me”, mandami in questo o quel luogo, semplicemente per essere un cristiano, per essere un uomo imitatore di Cristo.
Ecco la via che dobbiamo seguire : accogliere il mondo non come un pericolo da superare, ma come un luogo di testimonianza cristiana, per “interrogare”: che cosa la laicità del mondo dice alla nostra consacrazione? L’accoglienza del mondo inteso in modo positivo, come luogo di testimonianza, risulta dall’accoglienza della verità evangelica che il Regno di Dio non è di questo mondo, che stiamo ancora camminando verso il luogo dove vedremo Dio in faccia. Il Regno, la regalità di Dio non è un’utopia da realizzare su questa terra. Questa prospettiva escatologica consente di vedere che i tempi in cui viviamo non rappresentano un pericolo particolare per il cristianesimo, un pericolo per la Chiesa, ma che sono per essa una sfida, un’opportunità, una prova di fede e di fedeltà al nostro Maestro e Signore.
Se si tratta di una sfida, di un’opportunità, vale allora la pena ascoltare quello che ci dice il mondo; le sfide che ci presenta, quello che ci insegna. I rappresentanti degli Istituti Secolari, nei loro interventi, cercheranno di esaminare quattro temi che ci sono sembrati importanti. Sono: “Il nuovo modello di santità”, presentato dall’arcivescovo Gérald Cyprien Lacroix, primate del Canada; “Che cosa significa essere al servizio della Chiesa come laici e da laici”, presentato da Pierre Langeron, Francia; “I nuovi modelli di comunicazione”, presentato da Ivan Netto, India e “Come cambia la vocazione quando il mondo cambia”, presentato da Paola Grignolo, Italia.
Conclusione
Qualcuno ha detto che « La profezia non significa abbandonare la realtà per andare verso un cielo mistico e sacro, verso un avvenire mitico che riproduca le illusioni dell’ideologia. Secondo l’insegnamento dei profeti biblici, la profezia è la fedeltà in relazione alla storia, quando nello stesso tempo si poggiano i piedi sui cammini terrestri, anche se questi piedi dovranno sporcarsi per via della polvere. La profezia è rimanere figli della propria epoca, società, cultura nella quale si è immersi per diventare genitori di una nuova generazione che non è incantata dal momento – non a causa di un disattamento o di una ribellione, ma a causa della sua capacità di ricreare quel momento. L’Incarnazione, che costituisce il cuore del cristianesimo, è la croce radicata nella terra della storia per rimarginare la rottura tra la trascendenza e l’immanenza, tra il tempo e l’eternità, tra lo spazio e l’infinito, e per riannodare un nuovo incontro tra l’uomo e Dio”.
Auguro quindi a ognuno di noi di diventare profeta – figlio della propria epoca, genitore di una nuova generazione.
N. CMIS: Il testo originale è in italiano.
La consacrazione di Gesú
L'italiano «sacro» deriva dal latino sacer, la cui radice pare collegabile all'accadico saqàru ("sbarrare, interdire"). In greco, la costellazione dei significati ruota attorno ai termini di ἅγιος (grandezza, trascendenza e separatezza del divino). ίερόϛ (uomini o oggetti segnati in modo privilegiato dall'influenza divina). La loro radice indoeuropea sac, sak sag significa attaccare, aderire, avvincere. Ne scaturisce il senso di una realtà avvinta, legata alla divinità. L'etimologia suggerisce che il termine può concorrere a definire un luogo, un oggetto, un ruolo (sacerdote) o un atto ritualizzato (sacrificio, consacrazione) che sono «sacri» in quanto dicono ad un tempo inclusionelunione e esclusionelseparazione. Il sacro quindi unisce e separa.
Nella parola «consacrazione» compare la parola «sacro»: «consacrazione» significa infatti rendere sacro, unire una data realtà profana alla sfera di ciò che è «sacro». Tale senso compare anche in un'altra parola collegata sempre a questa sfera del sacro che è il sacrificio: sacrum facere, rendere sacro una data realtà attraverso la sua eliminazione o annientamento perché renda possibile una comunione con la divinità e la sfera del sacro. I termini sacro, consacrare, sacrificio, sacerdozio, sacello esprimono tutti la medesima dinamica . Nella consacrazione viene connesso, più o meno intimamente, con la sfera della divinità, con il suo mistero, una realtà non-sacra che chiamiamo profana (' ciò che sta davanti al fanum ovvero al tempio).
Il sacro è una struttura essenziale della reIigiosità, dal momento che l'esperienza umana di Dio è necessariamente mediata, costretta cioè a passare attraverso qualcosa che non è Dio, e questo qualcosa diventa, perciò, evocatore del divino, diventa, appunto, sacro, diverso, separato dall'uso profano, oggetto di rispetto, venerazione e timore. Per entrare in contatto con il divino l'uomo ritaglia dalla vita -cioè dal mondo profano -gesti, persone, spazi e tempi, e li carica di valenza simbolica, considerandoli il luogo privilegiato dell'incontro con il divino. Si forma cosÌ l'ambito del sacro, che troviamo in tutte le religioni. L'uomo considera «sacro» il luogo, il tempo e la persona dove avviene la sua esperienza del divino. A motivo di questa mediazione simbolica, la realtà che viene scelta per mediare il divino è ad esso assimilato e diventa anch'essa oggetto di riverenza e di venerazione (contrapposto in genere a profano).
Il sacro ha a che fare in modo speciale con la religione. Preferendo il significato dato da Lattanzio (cf Divina Institutiones, IV, 28). La religione ci parla di un legame stretto (il religare) tra uomo e Dio. Nel predisporre la grammatica del religare (legare uomo e Dio, e gli uomini in una comunità di fede) il sacro ordina e predispone le ragioni del separare e del togliere via. Separare e «tollere» (togliere): chi non ( condivide la dimensione del sacro a cui una comunità fa riferimento, resta separato da quella comunità. Regole e comportamenti di «purità» ed «impurità» esprimono la grammatica del sacro.
Nell'ambito della filosofia della religione, della scienza delle religioni, delle scienze bibliche e della teologia sistematica, con il termine «sacro» viene designato tutto ciò che è venerato dall'uomo come indisponibile, sperimentato come potenza dalla quale gli uomini sono totalmente dipendenti. Le esperienze religiose del sacro possono assumere le forme più disparate, ma si riassumono prevalentemente in due forme opposte: il sacro può essere percepito in maniera sconvolgente e imprevedibile (tremendum), espresso nelle testimonianze bibliche soprattutto nei racconti delle teofanie, dove lo spavento improvviso e le illuminazioni folgoranti rivelano l'spetto numinoso del divino, presente in particolare nell'esperienza della morte; oppure sperimentato in maniera attraente e coinvolgente (fascinans) come nel vento e nell'esperienza dell'amore.
Questa duplicità dell'esperienza del sacro è presente anche nella rivelazione biblica. Da un lato la santità di Dio, con i suoi attributi di trascendenza, ineffabilità e indisponibilità, fa sì che l'uomo sia mosso con timore e tremore nei suoi confronti in quanto Gli è lontano e distante. Dall'altro lato questa stessa santità si comuni a a ciò che non è divino -al profeta, al consacrato, all'uomo in generale con misericordia, perdonandogli la colpa, e questi si sente attratto amorevolmente verso di Lui. Troviamo presente questa duplice esperienza tanto nell'Antico quanto nel Nuovo Testamento, benché va constatato che l'esperienza che Gesù fa del sacro costituisca un decisivo superamento della sua latente ambiguità. Questa novità non è stata sempre in modo cons quenziale riconosciuta ed assunta dai testi neotestamentari e tantomeno è div nuta prassi ecclesiale.
Nel Nuovo Testamento, infatti, ritroviamo ancora le due caratteristiche fondamentali della rivelazione di Dio dell' Antico Testamento: da un Iato il Dio dalla volontà incomprensibile e terribile, che troneggia in una luce inaccessibile (Eb 10,31; lPt 5,6; 1 Tm 6,16), punitivo, vendicativo, supremo difensore e giustiziere; mentre da un altro lato il Dio-Abbà, donatore di vita, di perdono e amore che non più ama i buoni e punisce i cattivi, ma ama tutti, perché tutti sono ugualmente sue creature (Mt 5,45): un'immagine di Dio che scandalizza il mondo religioso di Gesù.
L'esperienza singolare che Gesù fa di Dio si situa all'apice sia dell'Antico che del Nuovo Testamento. In lui il sacro viene ridefinito e liberato dalla sua ambiguità: le realtà fondamentali della religione ebraica, ma di qualsiasi religione in quanto tale, quali il sacrificio e la comprensione di ciò che è sacro vengono interrotte e rivissute da Gesù a partire dalla sua consacrazione.
Voglio dunque ripercorre i punti centrali di questo percorso cristologico: il battesimo, il ministero prepasquale e la passione-morte.
1. Il battesimo
I Vangeli narrano questo evento nella vita di Gesù nella forma di un midrash cristiano, un genere letterario tipico dell'Antico Testamento, che ci dà un'interpretazione dell'identità di Gesù. Tale midrash ha la funzione di rispondere all'imbarazzo dei primi cristiani che vedevano nel battesimo al Giordano una subordinazione di Gesù al Battista e la costatazione che Gesù aveva avuto bisogno anche lui di perdono e di conversione.
Ci potremmo chiedere, come mai Gesù abbia deciso di farsi battezzare da Giovanni. È ragionevole affermare prima di tutto che Gesù era rimasto colpito dall'annuncio del Battista e dall'invito alla penitenza e conversione per il perdono dei peccati. Dobbiamo vedere a questo punto, se il battesimo di Gesù, in quanto battesimo di penitenza, implica che Gesù abbia avuto motivi per pentirsi. Se così fosse, ciò significherebbe che Gesù aveva coscienza del proprio peccato.
Il gesto di Gesù rivela il modo con cui Dio sceglie di essere in mezzo agli uomini: dell'essere-con. Gesù non si limita a chinarsi sui peccatori: è con loro. Proprio poiché è senza peccato, la sua solidarietà con l'umanità peccatrice è totale. Gesù, proprio perché «è con» i peccatori, vive dal di dentro, senza commetterlo, il loro peccato. Gesù può prendere su di sé il peccato, poiché è senza peccato. Ciò significa che la solidarietà di Gesù con il peccatore è tale da identificarlo come peccatore (cf 2Cor 5,21). Il battesimo di Gesù è paradigmatico, poiché ci aiuta a comprendere quali sono gli elementi costitutivi della sua consacrazione.
La "consacrazione" mira ad unire una data realtà profana alla sfera di ciò che è "sacro", essendo questa Uila dinamica ad un tempo di esclusione/separazione e di inclusione/unione. Già dalla ricognizione fenomenologica del battesimo di Gesù j rendiamo conto che è assente il momento di esclusione/separazione. Gesù si identifica con i peccatori: piena solidarietà con quella realtà profan , anzi dis-sacrante, che è il mondo del peccato e dell'impuro. Gesù è "con i peccatori" in modo non religioso. Non c'è rifiuto del mondo dei prccatori rr a un profondo farsi prossimo e solidale.
L'apertura dei cidi nella scena del battesimo (cf Matteo e Luca) e la discesa dello Spirito ind: cano il movimento di identificazione che la sfera del sacro pone con Colui cht. è a sua volta identificato con i peccatori. «Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: "Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento"» (Lc 3,21-22). In questa teofania battesimale l'evangelista ci rivela che il nucleo profondo dell'esperienza religiosa di Gesù non è tanto una decisione o un comando, ma sentirsi originati da un amore precedente e ricevuto.
2. La consacrazione prepasquale
Per un certo periodo Gesù non solo battezzava, ma anche predicava lo stesso annuncio di Giovanni, incluso il messaggio sociale. Ad un certo punto, tuttavia, è successo qualcosa che spinse e motivò Gesù a lasciare Giovanni. Gesù cessò di battezzare e di annunciare l'imminente giorno di giudizio. Cosa mai gli ha fatto cambiare idea tanto da dover parlare di una radicale conversione di Gesù? Infatti ad un certo punto i Vangeli testimoniano che Gesù aveva il proprio messaggio e definiva se stesso in contrasto con Giovanni.
Succede qualcosa per cui ad un certo punto Gesù smette di battezzare, di digiunare, di svolgere la preghiera rituale. Questi atteggiamenti nuovi in Gesù di Nazaret balzano subito all'occhio tra la gente di Galilea (cf Mt 9,14-15; 11,18-19; Lc 11,1). Da uno stile di vita ascetico, incentrato sull'annuncio dell'imminente ira di Dio, Gesù annuncia che il Regno di Dio è ormai giunto. Il testo evangelico che mostra questo radicale cambiamento è il testo di Lc 11,20 (Mt 12,28). «Se invece scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il Regno di Dio».
Gesù era conscio che dove lo Spirito operava lì faceva irruzione il Regno di Dio. Il Vangelo apocrifo di Tommaso afferma questo chiaramente: «Gesù disse: colui che è vicino a me è vicino al fuoco, e chi è lontano da me è lontano dal Regno» (VgTom 82).
È agli inizi del suo ministero che Gesù prende consapevolezza della sua consacrazione. «Si dimentica spesso che l'espressione "Gesù Cristo", nella quale fin dalle origini i cristiani hanno racchiuso la loro fede, significa "Gesù il consacrato". Lui stesso si è cosÌ definito nella sinagoga di Nazareth (Lc 4,16ss), citando un passo del profeta saia (61,1-2): "Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato e mi ha mandato ad annunziare la lieta notizia ai poveri»".
L'esperienza dello Spirito, operante in lui, ha comportato un cambiamento cosÌ radicale nella vita di Gesù che da questi viene spinto fino agli ultimi membri della società. I malati, i peccatori e gli indemoniati sono i diretti destinatari del Regno. Questo Gesù lo impara dalla sua esperienza e dal suo ministero. Gesù attende la venuta del Regno di Dio e non più la venuta di un battezzatore messianico. Se il battesimo di Gesù al Giordano costituisce la svolta dalla vita privata di Gesù a quella pubblica, il ministero di guarigione e di esorcismo costituisce invece la svolta radicale nella vita pubblica di Gesù.
La domanda che Giovanni rivolge a Gesù mostra chiaramente la differenza tra il modo con cui il Battista attendeva il Regno escatologico e l'esperienza di Gesù. Ciò che Gesù compie e dice, purtroppo, non rientra totalmente nello schema del Battista; egli si aspettava il battezzatore messianico, invece ha ora qualcuno che è amico dei pubblicani e dei peccatori. Perché continuare a battezzare la gente per il perdono dei peccati, cosicché possono fuggire all'ira imminente, quando i malati, i poveri e i peccatori sono visitati direttamente dalla misericordia di Dio senza la venuta dell'ira di Dio? L'attenzione non è più rivolta all'uomo che fa penitenza, ma all'amore di Dio che usa misericordia e risana la sua creatura.
L'avvento del Regno non è legato solo alla sua opera taumaturgica, ai miracoli e alle parole di Gesù: al centro c'è la sua persona. Chiunque incontrava questo Gesù, si trovava faccia a faccia con il Dio di Abramo, d'lsacco e di Giacobbe. «Per i contemporanei di Gesù l'incontro con lui era un invito all'incontro personale col Dio vivente, poiché quell'uomo era personalmente il Figlio di Dio. L'incontro umano con Gesù è il sacramento dell'incontro con Dio»4. L'esperienza di Gesù, in questo senso, è la realizzazione suprema e, perciò stesso, sorgente o norma di ogni incontro con Dio. Nei gesti e nelle parole di Gesù di Nazaret si è talmente vicini al Regno di Dio, che incontrando Gesù si fa esperienza di Dio stesso. «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi».
Gesù si comprende totalmente a partire dall'amore di Dio e a partire da questo amore propriamente eksiste. Quanto più Dio Padre si fa prossimo di Gesù di Nazaret, tanto più l'essere di Gesù si svuota per far spazio alla βασιλεία. L'espressione di Giovanni (1,18) «ό ὢν είϛ τὁν κόλπον τοῡ πατϱὁϛ» indica un
moto a luogo (είϛ τὁν κόλπον): si tratta di un restare dinamico nel seno del Padre. Il suo essere uomo consisteva nella libertà di non voler essere nulla per sé. «Gesù è un uomo unificato, totalmente incamminato in una sola direzione. Ha un solo interesse, non tanti. Ha una sola parola da dire, non molte [ ...] Gesù è una persona unificata, sempre volta al centro, e di quel centro parla, non di altro». L'essere di quest'uomo era piuttosto l'evento di una dimenticanza di sé che supera qualsiasi attenzione per sé.
Nella sua radicale «proesistenza», Gesù rivela la modalità della sua consacrazione. È l'unto di Dio, ovvero il «testimone fedele», poiché Gesù rende visibile il Dio ineffabile ed invisibile. «Se rendo testimonianza a me stesso la mia testimonianza non vale. Un altro rende testimonianza, e vale» (Gv 5,31); «Sì io rendo testimonianza a me stesso, tuttavia la mia testimonianza vale, perché io so da dove sono venuto e dove vado» (Gv 8,14). La differenza tra i profeti dell'AT e Gesù di Nazaret consiste nel fatto che quest'ultimo è il «testimone fedele» (cf Ap 1,5), il rivelatore di Dio: «il volgersi di Gesù al mondo non è soltanto la conseguenza del suo volgersi a Dio, ma la sua continuazione, la sua visibile trasparenza».
L'essere tale non trasgredisce la struttura rivelatrice della rivelazione biblica. Gesù non si sostituisce a Dio; non si pone accanto a Dio e non si pone al posto di Dio, usurpandone la dignità: Gesù rivela l'origine dell'Amore del Padre e proprio in questo "è" Figlio. Gesù non dà testimonianza di se stesso, se non lasciando che sia Dio Padre ad amare per lui e attraverso di lui. «Se [Gesù] ha accolto pubblicani e peccatori, è perché voleva in tal modo svelare chi è Dio (Lc 15): non soltanto un gesto di salvezza in favore dei peccatori, ma ancor prima, e più profondamente, un gesto di rivelazione». Quando Gesù pronuncia «lo sono» non vuole altro che manifestare Colui che l'ha mandato: il Padre. «Quando dunque Gesù pronuncia έγώ είμι, non rivela innanzitutto se stesso, ma il Padre (cf Gv 8,24s)». Ciò che è detto del dire e del fare di Gesù -«io non faccio nulla da me stesso; io non dico nulla da me stesso, ma come il Padre mi ha insegnato e come fa il Padre, così io parlo e agisco» -vale ancor più per l'essere di Gesù: «lo sono» in quanto relazionato al Padre (πρòϛ τòѵ θεόѵ).
3. Consacrazione come apertura all'altro
La nota caratteristica e la minima base storica dell'autentica tradizione sul Gesù prepasquale ci attestano che Gesù ha avuto un amore preferenziale per tutti coloro che si trovavano ai margini della società del suo tempo: i malati e gli indemoniati, i pubblicani e le prostitute, i piccoli e i poveri. Anzi Gesù è aperto all'altro anche in termini di cultura e religione: cioè al pagano. In alcuni incontri (cfr Mc 5,1-20; Mc 7,24-30; Lc 17, 11-19) Gesù oltrepassa il proprio limite confessionale e missionario (non-ebreo) e si lascia guidare nella comprensione del Regno di Dio da chi è al di fuori del popolo eletto. «In queste brani Gesù si mostra come qualcuno che è capace di oltrepassare confini e di costruire ponti»9.
È interessante notare, a proposito, il ruolo dei Samaritani nel disvelamento dell'identità di Gesù e di ciò che è la vera fede.
L'apertura di Gesù verso l'altro è maggiormente evidente nei confronti di coloro che erano i nemici di Dio: i peccatori. Gesù svuotò se stesso cosÌ totalmente verso costoro che definÌ se stesso in relazione ai peccatori. «Amico dei peccatori» (cf Mt 11,19). Offrendo il perdono senza farlo precedere dal pentimento, Gesù trasgredisce le esigenze morali imposte dalla Legge. L'azione di Gesù di mangiare con i peccatori simboleggia la priorità della misericordia di Dio (indicativo) sul giudizio e l'ira di Dio (imperativo).
Gesù ha offerto ai pubblicani, alle prostitute e ai peccatori la partecipazione al Regno di Dio mentre essi erano ancora peccatori (cf Rom 5,8). In questa condivisione della mensa, Gesù va ben oltre ad una semplice simpatia nei confronti di coloro che sono fuori da ogni relazione. Gesù realizza la sua consacrazione divenendo una cosa sola con il destino di chi è "altro" ed "altro-da Dio". Facendosi peccatore coi peccatori, pubblicano coi pubblicani, Gesù sottrae il peccatore e il pubblicano da ciò che costituisce l'essenza del peccato, cioè la non-relazione, l'isolamento infernale in cui l'uomo si trova. Gesù si è caricato di tutti coloro che vivevano nell'inferno e nella morte. «Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie» (Mt 8,17).
Il Nuovo Testamento esprimerà questa identificazione di Gesù con l'altro con le espressioni: «peri emon» e «peri pollon». «Paolo chiama questo scambio con il nome di "riconciliazione" (katallage). Il termine greco contiene l'aggettivo alias (altro); riconciliazione significa dunque un diventar-altro»lO. Dio riconcilia gli uomini, fa comunione con l'uomo, divenendo uomo: divenendo altro.
4. La consegna di Gesù nella sua passione e morte
Tutta l'esistenza di Gesù è stata un lasciarsi determinare fino in fondo dall'amore di Dio Padre: è Lui, l'Abbà, che gli determina vita così come la morte (cf Mt 26,38). Gesù sa di essere costituito dal Regno-che-viene, cioè è ben consapevole che la sua vita e la sua morte hanno il loro senso definitivo nella speranza escatologica. «Amen, io vi dico: non berrò più del frutto della vite fino a quel giorno in cui ne berrò di nuovo nel Regno di Dio» (Mc 14,25); «Infatti vi dico: ormai non berrò più del frutto della vite finché non venga il Regno di Dio» (Le 22,18). «La sua ferma fiducia include la disponibilità ad accogliere dalle mani di Dio questa morte»l1. Gesù è stato il «testimone fedele» poiché si è affidato totalmente e radicalmente all'amore di Dio Padre (cf Le 23,46). «Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Cv 13,1).
Nel Nuovo Testamento troviamo un verbo che collega in unità i Vangeli e la primitiva interpretazione della morte di Gesù elaborata dall'apostolo Paolo. Questo verbo permette di comprendere più intimamente in che cosa consiste il segreto della consacrazione di Gesù. Si tratta del verbo "consegnare" (παραδιδόѵαι). Il verbo "consegnare", in latino tradere", trova in Mt 26,46-47 il significato di tradimento. Gesù è consegnato a Giuda; Giuda consegna Gesù ai Sommi sacerdoti (Mc 14,10) e agli scribi; questi lo consegnano a Pilato (Mt 27,1); Pilato consegna Gesù ai soldati (Mt 27,26); i soldati consegnano Gesù alla croce (Mt 27,31). Gli evangelisti sottolineano, però, che Gesù non è passivo in questa successione di mani: «il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Anche Marco, Luca e Giovanni sottolineano la libera e cosciente autodonazione di Gesù: «io offro la mia vitalho il potere di offrirla» (Cv 10,17). In Gal 1,4; 2,20 e nei testi deuteropaolini Et 5,2.25; Tit 2,14 e lTim 2,6 è Cristo il soggetto che dona tutto ciò che ha ricevuto da Dio Padre (Mt 11,27). «Consegnò lo spirito» (Cv 19,30). Lo Spirito ricevuto al battesimo nel Giordano è ora consegnato al battesimo del Golgota. Gesù immerso nelle acque profonde della morte Gesù ne riemerge e «uscendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: "Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto"» (Mc 1,10-11). Ormai lo Spirito che scaturisce dalla morte di Gesù è effuso sopra ogni persona, «i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni. E anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno» (Atti 2,17 -18). Donando se stesso "per noi" rivela il fine della sua consacrazione. Giovanni afferma all'inizio del suo Vangelo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare ἒδωκεѵ il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,16-17). «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato παρέδωκεѵ per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?»(Rom 8,31-32).
5. Consacrazione come sacrificio di Gesù
La parola Ilconsacrazione" significa rendere sacro, unire una data realtà profana alla sfera di ciò che è Ilsacro". Tale senso, dicevamo, compare anche nella parola Ilsacrificio": sacrum facere, rendere sacro una data realtà attraverso la sua eliminazione o annientamento perché renda possibile una comunione con la divinità e la sfera del sacro. I termini consacrare, sacrificio e sacerdozio si richiamano a vicenda in questa dinamica.
Questa terminologia di consacrazione permette a Gesù di tematizzare la sua donazione, specialmente attraverso i Canti del servo del Signore e la cena pasquale. In particolare Is 53 ha avuto un ruolo effettivo nella comprensione che Gesù ha dato di tutta la sua vita, soprattutto a partire dal momento in cui ha sentito come imminente la possibilità di morire violentemente. Offrendo la sua vita per i molti, Gesù adempie l'essere-per, la proesistenza del Servo. Ritroviamo qui due categorie soteriologiche fondamentali che riprenderemo nel terzo punto: l'espiazione e la vicari età, in base al quale la consacrazione di Gesù rivela la sua definitiva dimensione dell'essere-per. Nel segno del pane e del vino Gesù ha interpretato la propria morte. In questi simboli Gesù esprime il suo IlEccomi": questo è il mio corpo' questo sono io-per-voi.
Questa terminologia di consacrazione e di espiazione vicaria è ben espressa nella Lettera agli Ebrei (5,7-9; 9,11-14)15. A differenza del rito dell'espiazione, in cui era l'offerente che identificava se stesso con l'animale da sacrificare per trovare comunione con il Santo, nella consacrazione di Gesù, è Dio stesso che si identifica con Gesù di Nazaret (Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento) e questi con i peccatori consegnandosi a loro.
In tale rovesciamento di dinamica si rivela la novità della consacrazione di Gesù. Non è più compresa né in una logica di "rito espiatorio", in cui il peccatore deve offrire sacrifici per ottenere il perdono dei peccati, né in una logica di "capro espiatorio", in cui l'innocente è la vittima dei peccatori. Come nel superamento del rito espiatorio non è il peccatore ma è Dio che si identifica con la vittima sacrificale, così nel superamento della dinamica del "capro espiatorio" non è il peccatore che scarica la propria morte sull'innocente -passivo e costretto dalla violenza del peccatore -ma è l'innocente che si consegna attivamente e liberamente.
La consacrazione di Gesù porta con sé un potenziale rivoluzionario, poiché esprime una solidarietà vissuta fino alle estreme conseguenze, in quanto non è solo la semplice partecipazione alle altrui sofferenze, bensì l'assunzione del destino, della storia e dell'essere altrui. Ma questa solidarietà è vissuta nella dimenticanza di sé nelle mani di Dio Padre. Senza questa consegna nelle mani di Dio Padre non sarebbe stato possibile per Gesù stare al di fuori del cerchio diabolico della violenza religiosa che impone agli uomini sacrifici per ricongiungersi al Sacro. Gesù prende su di sé ciò che è loro (peccatol morte) per donare ad essi ciò che è suo (perdonol vita). «[Gesù] con uno Spirito eterno offrí se stesso senza macchia a Dio» (Eh 9,14). Gesù è consacrato, poiché è Colui che dona lo Spirito. Lo Spirito che ha ricevuto al battesimo nel Giordano è ora consegnato al battesimo del Golgotha. Ormai lo Spirito che scaturisce dalla morte di Gesù è effuso sopra ogni persona per il perdono dei peccati (cf Gv 20,22).
La consacrazione di Gesù ci sollecita a ridefinire il nostro concetto di sacro, rendendo ormai superflua ma ancor più contraddittoria ogni richiesta di sacrifici, a motivo dei sensi di colpa, per ristabilire la comunione con il Santo. «Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori» (Mt 9,13). Ormai il rapporto, la re-ligio, con il sacro non avviene più attraverso la negazione della vita, attraverso il rito di un sacrificio, ma nella riconoscenza del dono e la sua ridondanza. Il Signore non aspetta che gli uomini Gli offrano qualcosa, ma Egli stesso si è fatto dono per noi. Non sono più gli uomini che devono offrire a Dio, ma è Dio che si è offerto agli uomini, e Dio si offre donando la sua stessa capacità d'amare.
Con le parole di San Ignazio di Loyola nella Contemplazione per ottenere l'amore al n. 234: «esamino con molto amore quanto Dio nostro Signore ha fatto per me e quanto mi ha dato di quello che ha; poi ancora quanto egli desidera darsi a me, in tutto quello che può, secondo la sua divina disposizione. Quindi rifletto su me stesso, considerando che cosa è ragionevole e giusto che io, da parte mia, offra e doni alla sua divina Maestà, cioè tutte le mie cose e me stesso con esse, come chi offre con molto amore e dice: Prendi, o Signore, e accetta tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto, la mia volontà, tutto quello che ho e possiedo. Tu me lo hai dato; a te, Signore, lo ridono. Tutto è tuo: di tutto disponi secondo la tua piena volontà. Dammi il tuo amore e la tua grazia, e questo solo mi basta».
N. CMIS: Il testo originale è in italiano
Nel mondo, ma non del mondo. Riflessione sulla costante tensione dell'esser cristiano
Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz
1. Due mondi: un cammino di riflessione con Hildegard von Bingen
Dove è Cristo, nasce una tensione. Può vibrare silenziosamente, ma può anche infiammarsi in una lotta mortale, poiché Cristo non ha portato la pace, bensì la spada. Da un lato egli è – ineludibilmente – il Signore di tutto, di tutti gli esseri umani, di tutti gli angeli: "Tutto è stato fatto per mezzo di lui" (Giov. 1,3). Dunque tutto porta la sua impronta, è da lui permeato fino in fondo. Ma d’altro canto il tutto può anche chiudersi a lui e, cosa particolarmente terribile, proprio per quella forza che egli stesso ha posto nel creato: l’indipendenza, l’autonomia-viva, la libertà. Questa forza di essere se stessi che agisce già nell’esser da lui creati, che diventa visibile appunto "nell’essere a immagine e somiglianza (di Dio)", incomprensibilmente può rivolgersi contro di lui. "Sempre abbiamo in bocca il sapore della mela del paradiso", dice Hildegard von Bingen (1098-1179), il sapore della ribellione, dell’autodistruzione. Questa grande benedettina, che nel settembre di quest’anno sarà proclamata dottore della Chiesa, ha gettato uno sguardo profondo nei „due mondi“, tra i quali oscilliamo.
Ci sono infatti due tipi di mondo: quello creato dal logos che è sua "proprietà" ist (Gv. 1,3) e quello che si stacca dal suo esser amato e vuol appartenere a se stesso (benché in realtà non sia possibile). Ed è qui che si svolge il dramma di Gesù, la storia drammatica del figlio dell’uomo, che perisce perché la sua „proprietà“ si chiude in se stessa.
Indichiamo con le vigorose parole di Hildegard il punto che Dio nella creazione non poté né volle fissare: il punto in cui le creature riconoscono spontaneamente la propria origine. In questo risiede e sempre risiederà la possibilità della ferita originaria. Se Dio avesse escluso questo libero affetto, avrebbe davanti a sé invece di esseri umani (e di angeli) dei prodotti, delle imitazioni, degli esseri privi di volontà – ma chi vuol essere amato da automi? Proprio perché Dio non era schiavista non creò schiavi. Almeno una considerazione ci può guidare nella profondità di questo problema complesso: l’amore davvero superiore, il suo amore anela alla libertà, a lasciare che l’altro sia se stesso – ed è questa la sua vulnerabilità. Limite non dell’onnipotenza, bensì limite dell’amore costruito dall’interno."Con la potenza della tua forza oltremodo magnifica non schiacci nessuno". In ciò risiede il fianco scoperto di Dio e dell’essere umano: la possibilità di ferire l’amore originario, di resistere all’esser amati, di negare l’amore reciproco. Invece di dire tu e io, l’essere umano (insieme all’angelo nero) dice solo io e io soltanto. C’è in noi una voce che dice: „Perché dovrei occuparmi di altro che di me stesso? (...) Che vita sarebbe questa, se volessi rispondere a tutte le voci di gioia e di tristezza? Io conosco solo della mia esistenza.“Proprio questo è accaduto a Lucifero e alle creature come lui", che volevano esser qualcosa da se stessi. Infatti quando videro la propria grandiosa gloria e bellezza nel suo fulgente splendore, dimenticarono il loro creatore."Ciò si ripete in modo terribile anche per l’uomo", che, presuntuoso, stabilisce da se stesso la legge, come fosse il suo proprio Dio (...); e poi calpesta in sé quell’amore con dolorosa amarezza".
Sciolta dal linguaggio religioso e contemplata nel quotidiano colpisce in questo brano la dimenticanza della propria origine e il ripiegarsi su se stessi (curvatio animi chiama Agostino il peccato). Proprio le forze che ci sono date, cioè vigore e autonomia, ci inducono a separarci da colui che ce le ha donate. "Quando si svegliarono nella propria luce mi dimenticarono". L’inebriarsi della propria luce si esprime normalmente con un’espressione piuttosto noiosa e astratta di allontanamento da Dio. Concretamente in ciò si esprime l’innegabile verità che non siamo da noi e che ogni tentativo di essere da noi a lungo andare finisce mortalmente.
"Così tutta la natura umana è contorta o contratta". E’ inestirpabile il sospetto che Nietzsche ha colto - secondo molti - con maggior acume nelle sue malevole riflessioni: dove è Dio, non posso esserci io. E questo rifiuto di Dio a favore della propria forza è la caratteristica oscura del secolo scorso. "Come l’anima si suicida se non tenta più di aggrapparsi a Dio".
Nella creazione c’è dunque un fianco scoperto. Dev’essere non protetto, perché Dio non lo vuole sicuro, altrimenti curiosamente danneggerebbe la sua creatura. L’uomo stesso – se Dio gli imponesse la sua volontà per "aiutarlo" – dovrebbe opporsi a qualsiasi intervento.
E’ necessaria quindi una lunga e strenua lotta per arrivare alla verità su noi stessi. Dove sta la vera fonte della forza? Dove ci si taglia fuori da qualsiasi forza – il che in altri termini equivale alla castrazione? Proprio come sono castrate le società alle quali si è chiuso il cielo. "Quanto ha desiderato la creatura il bacio del creatore..." – eppure vi si oppone. Consideriamo anche con l’aiuto dell’antropologia filosofica questo mysterium iniquitatis sempre attivo.
2. Il mondo dell’amore di sé e della violenza
Secondo tutte le ricerche antropologiche l’aggressione è una pulsione fondamentale. Ciò significa che – come tutte le pulsioni – anche questa è necessaria per conservare la vita: è potenza di sé, forza vitale, affermazione di sé assolutamente ragionevole. Ma è evidente anche un lato oscuro: l’imporsi a spese degli altri. Un’ aggressione di questo genere è inerente a tutto ciò che vive. Che si tratti della pianta che invade le altre per aver abbastanza luce o di un animale che ne uccide uno più debole anche della stessa specie o dell’essere umano che fin dall’infanzia impara a imporsi a spese degli altri. E’ una legge di tutto ciò che esiste, scacciare gli altri, nutrirsi degli altri, sottomettere gli altri per crescere, addirittura per eliminarli.
Le religioni lo sanno da molto più tempo della psicologia del profondo: sete di vivere e paura, colpa ed esistenza sono inestricabilmente intrecciate nel profondo. Agostino, il grande pensatore del primo cristianesimo, ha chiamato questo insieme confuso „peccato originale“: un’interpretazione dell’esistenza con un semplice sguardo. Arthur Schopenhauer parlava di una "grave colpa del genere umano per la sua mera esistenza", che si trova ugualmente nel Cristianesimo, nel Brahmanesimo e nel Buddismo. Nel frattempo il concetto di peccato originale viene molto combattuto. "Eppure senza il più incomprensibile di tutti i misteri noi restiamo incomprensibili a noi stessi", scriveva Pascal. La vita infierisce sulla vita, vive della morte altrui. In questo tessuto istintivo nasce ognuno – ma questa aggressione data dalla natura si può soggiogare? Come trasformarla costruttivamente in forza vitale?
Per vedere più chiaramente la forza della violenza, di cui il "mondo" vive, va approfondito il mistero della vita, in cui la violenza è insita.
3. Il duplice aspetto della vita
La vita ha un duplice carattere sconcertante e insieme inesauribile : da un lato è „data“ prima del pensiero, non scelta (nemmeno entro i limiti imposti); d’altro canto è data a se stessa e può esser vissuta autonomamente. La vita quindi come dono e vita come possesso. E in questo sta evidentemente una radice decisiva dell’aggressione: difendere la vita come proprietà contro gli altri, ampliarla, imporla se necessario anche danneggiando gli altri. Aggressione come difesa per la paura inconscia di non ottenere abbastanza dalla vita.
3.1 Vita come dono originario
La vita vede se stessa solo dall’ „esterno“, nel suo realizzarsi negli uomini e nelle cose, si riesce ad afferrare solo in „qualcosa di vissuto“. Eppure in ciò si schiude alla riflessione una vita soggiacente: fare o subire provengono da un „interno“ che nessuno ha consapevolmente davanti agli occhi, ma in cui ognuno si muove costantemente. Ciò significa che noi „vediamo“ la nostra vita non come base viva, radicale dell’esistenza; ma che la vita si compie in modo originario, preriflessivo, „da sé“. Questo fondamento nasconde una „notte“ imperscrutabile; noi siamo notturni per noi stessi. Proprio come l’occhio che vede tutto, ma non se stesso.
La vita non si „fa“ e non si può assolutamente „fare“– neppure empiricamente – , ma solo mantenere e trasmettere. Anche quando – con una brutta espressione – i genitori „fanno“ un figlio, il processo del generare e del concepire va ben oltre un fare biologico: anche i genitori debbono appena imparare a conoscere il bambino, (in modo incompleto), nella vitalità che gli è propria; non è un loro „prodotto“ mirato. Anche la fertilizzazione in vitro, anche i cloni si servono di materiali vivi preesistenti. La catena della vita attraversa le generazioni, non s’instaura nuovamente ogni volta da zero. La vita è dono originario, in sé incompresa, incomprensibile, irraggiungibile anche prima di qualsiasi accettazione.
La vita dunque non esiste semplicemente, viene senza esser chiamata, anzi: proviene dalla pienezza. La vita stessa è pienezza, è il giungere a sé già compiuto. La vita nasce dal fatto originario dell’essere donati a se stessi. E non è diffusa con parsimonia e miseramente, anzi si realizza costantemente come una creatio continua, la cui abbondanza ci possiamo aspettare anche domani.
Il nucleo „notturno“ è il carattere della vita, è dato semplicemente: balzo dall’origine, vita dalla vita originaria. Sfugge e risulta incomprensibile, come risultiamo anche noi incomprensibili a noi stessi. La nostra origine è immémoriale, non ce ne possiamo ricordare.
3.2 La vita come autonomia
D’altro canto la vita, benché venga donata, è tuttavia innegabilmente autonoma: è data a sé come crescita (natura significa ciò che nasce). Da sé interviene nel mondo, ne ricava autonomamente i „materiali“ per esistere. Già nel respirare partecipiamo costantemente a ciò che ci circonda, così pure nel mangiare, nel bere... Da dovunque provenga la vita (e non abbiamo ancora risposto alla domanda sul donatore), si tratta di un dono dell’esser se stessi; ovvero: dono di una forza propria, demandata al singolo. Dal suo inesauribile, imperscrutabile inizio la vita davvero appartiene a sé. La cosa risulta evidente con questa immagine: quando una candela accesa ne accende un’altra, la seconda fiamma brucia di per sé, benchè debba la sua esistenza alla prima. E’ proprio della grandezza del dono della „vita“ il fatto che offre liberamente la sua collaborazione. Esser se stessi non è furto prometeico, bensì dono. L’esser dati e il dare se stessi non si escludono dunque: l’autonomia stessa è data. La vita interviene autonomamente nel mondo e lì percepisce se stessa, anche nella propria libertà. Così il nucleo vivo si trasforma in „ego“, in punto di riferimento del mondo, delle cose, degli uomini nella „cura“ di se stessi. Questo non è un „distacco“, anzi, questo movimento configura ciò che è vivo.
3.3 La vita come possesso: la colpa „ontica“ del mondo
Proprio per la sua invisibilità il dono della vita può anche esser preteso egoisticamente, in modo ingrato e distratto. In ciò abbiamo in nuce
possibilità oscure: nel prendere con arroganza senza chiedere (al povero si toglie anche l’unico agnello che ha), nel dare in modo interessato (do ut des: io dò affinché tu dia), nello scambio che presuppone un segreto eccessivo vantaggio dell’altro o, radicalmente: nel tenere per sé il „dono della vita“, senza trasmetterla generando. L’autoaffermazione della vita, questa forza di gravità ingrata e senza scrupoli, si può chiamare così: vivere la propria vita come possesso in modo aggressivo e avaro. Come un possesso da aumentare costantemente e da difendere come proprietà. Poiché l’esistenza nella sua prevedibile finitezza „non basta“ a se stessa, ha bisogno del possesso come di un apparente baluardo per non perdere o „rimetterci“ (parola carica di significato!) la vita, finchè non diventa inevitabile la perdita ultima, la morte. L’esistenza insicura non costringe forse ad avere? A tralasciare e anche a “escludere” l’altro?
Aggressione quindi per una segreta paura: che non bastino le provviste, che la vita non venga vissuta appieno, che l’altro abbia di più e che mi privi di qualcosa o mi prenda addirittura qualcosa... A questo si collega un superamento del pensiero: come spesso la colpa individuale si deve a un profondo sconvolgimento. E’ insito nell’esistenza quasi naturalmente, anzi inevitabilmente un disturbo: nel senso di un’“avidità“, pronta ad agire nella vita e necessaria. E con ciò arriviamo all’aggressione precolpevole, alla colpa „ontica“ premorale. Di questo parlano molte religioni nei miti e nelle immagini che riguardano tutta l’esistenza. Uno di tali miti tragici è quello di Edipo, la cui „colpa innocente“ si compie nell’omicidio del padre e nell’incesto con la propria madre. Questa è l’esperienza del mondo anche nel senso del Vangelo di Giovanni; tutti siamo „nel mondo“ inevitabilmente inseriti nel modo di vita egocentrico che gli è proprio.
Un famoso documento dei presocratici, il frammento 110 di Anassimandro (5 sec. a. C.), ha per tema la colpa anche delle cose: „le cose si puniscono e pagano reciprocamente il fio per la loro ingiustizia (adikias) secondo la disposizione (taxin) del tempo.“ Questo strano enunciato porta a interpretare l’aggressione come una colpa ontologica dovuta all’esistenza stessa. Il nascere e il configurarsi di tutte le cose infatti occupa spazio, ne scaccia altre, anzi, si nutre di altre, forse ne estingue per poter esistere a sua volta. Tuttavia secondo Anassimandro “la disposizione del tempo“ annulla la rimozione aggressiva, in quanto il tempo costringe tutto a passare, a sparire e all’oblio. Ciò che è più lontano dalla moderna coscienza di innocenza è questo strano essere invischiati nella „colpa“ anche di piante o animali. „Tutto ciò che vive nel grembo della natura è nato a spese di un altro e un giorno dovrà cedere il suo posto a quest’altro. La natura genera e distrugge e non le importa cosa genera, cosa distrugge, basta che la vita continui (...)“ Così la vita imperversa contro la vita, la vita precipita verso la morte, quella propria e quella altrui. Ciò che vive così avidamente può solo mietere orrore. Tommaso d’Aquino contemplando il creato parla di una discordia naturalis, di una lotta naturale, in cui non si tratta solo di conquistare spazi vitali, ma direttamente di distruggere l’altro divorando ed essendo divorati – di una natura, „dai denti e dagli artigli rossi“ (Alfred Tennyson (1809-1892)). Non ci sono eccezioni alla legge del far soffrire gli altri, del prendere senza chiedere l’altrui forza vitale. Reinhold Schneider (1903-1958), importante autore cattolico tedesco, nel contemplare verso la fine della sua vita le „tecniche“ degli insetti per divorare lentamente i loro ospiti dall’interno mediante le larve, ridiventô non credente com’era stato da giovane.
Si spiega con ciò lo stretto nesso oggettivo tra colpa e religioni, che praticano nei loro molteplici e diversi modi e forme il rito della liberazione collettiva dalla colpa. Pertanto le religioni non sono facili da annullare semplicemente criticandole, come se bastasse un loro annullamento illuministico per far sparire il loro pendant, la colpa. Dato che la colpa „ontica“ non è un’invenzione della morale decadente, bensì uno stato (preconscio); se si estingue superficialmente la colpa, questa „procede per meandri“: la colpa cambia le proprie forme fenomeniche, si traveste in modo mostruoso. Nel Processo di Kafka l’accusato Josef K. non saprà mai il motivo della sua accusa; ma la causa è chiara: è semplicemente colpevole. Tale colpa „ontica“ si è persa in gran parte nella coscienza illuminata, ma non è sparita dal disordine del mondo.
In questo contesto si chiarisce la strana espressione di peccato originale, che sembra inizialmente una caratteristica del Cristianesimo nell’interpretazione della Genesi. A un esame più attento il declino dell’esistenza (e non solo di quella umana) si esprime a livello più o meno simbolico nelle culture e nelle religioni più diverse; nell’“analisi“ di questo declino, anche solo a livello mitico-narrativo, si somigliano oggettivamente al massimo. Il „peccato originale” viene inteso nella tradizione biblica a livello umano-preindividuale e definisce una capacità di colpa insita nella capacità naturale e aggressiva di imporsi. Si manifesta e si attiva sopratutto nello spazio interpersonale in quanto vero luogo dell’errore. Spiegazioni ingenue di una colpa „ereditata“ a livello biologico, genetico o psicologico mancano il segno; si tratta piuttosto di un pericolo per i rapporti umani. Essere reciprocamente colpevoli significa, nell’accezione più semplice, porre il proprio io contro l’altro. Proprio ciò avviene però a livello preconscio-naturale: nella protesta dell’io contro il tu, nella sua strumentalizzazione per scopi propri, nel non ammettere e respingere l’altro dal proprio dominio. Il tu vogliamo che diventi l’Es, una controparte priva di volontà.
Ognuno di noi nasce in questo intreccio tra lo spingere l’altro verso livelli inferiori e l’imposizione di sé, vi partecipa – anche nell’autodifesa – e vi è impigliato costitutivamente, come „eredità“. Non poche religioni e culture con un’antropologia a struttura gerarchica prevedono sistematicamente il degrado altrui, non considerano certi strati della popolazione neppure come esseri umani nel vero senso del termine: i paria infatti, gli intoccabili nel sistema induista delle caste costituiscono una sorta di „esseri umani inferiori“. Ma anche i totalitarismi del XX secolo hanno strumentalizzato persone o gruppi di persone secondo piani precisi: „Hanno promesso di costruire per noi; ora costruiscono usando noi“ (Vasyl’ Stus)
La colpa originaria, come disposizione di ogni esistenza umana, è la colpa dell’imporsi – contro l’origine dell’esistenza, Dio, o contro il „fratello“;più precisamente contro entrambi. Infatti entrambi sono assoggettati alla propria volontà, se possibile in modo utile. „Peccato originale“ dunque significa nel vero senso della parola separazione per potersi affermare e essere se stesso invece dell’esser con altri. Questo è il „mondo“ che si oppone alla venuta di Gesù.
4. Soluzione della potenza del „mondo“
E’ compito delle religioni preparare un superamento o per lo meno una protezione dall’aggressione. Il termine „santo“ rinvia al sanare qualcosa di distrutto o di distruttivo: ben oltre la sete di vivere il pensiero religioso schiude una visione caritatevole, rassicurante: esistere è anche e sopratutto un dono. Nessuno si è generato da sé; un’origine concede a tutte le creature l’esistenza. Concedere la vita a un altro essere creato diventa criterio di una cultura. Nessuno è „scopo“ di un altro, lo dice già l’Illuminismo. Concedere agli altri la nascita, accordare la vita diventa criterio di una cultura: essa accetta per esempio il bambino come „puro dono“? Ciò presuppone che non si accolga la propria esistenza in modo ovvio, avido o scontento, bensì che la si viva sempre con stupore e che venga confermata con gratitudine. A livelli più profondi però ciò presuppone che: la vita dev’essere liberata dalla paura della propria forza e dei propri limiti, dalla „limitazione“ tramite un’altra esistenza. Non deve difendere come un furto ciò che è stato dato con inspiegabile sovrabbondanza: la propria vita.
E’ pensabile una tale vita sorta dalla pienezza, senza aggressione, paura e avidità? Diverse impostazioni religiose vanno dalla fuga dalla vita buddista fino al dominio sul mondo della Bibbia: la vita fluisce „gratuitamente“. Scoprire il carattere di questo gratis significa sostituirere una vita vista come possesso (difeso in modo aggressivo) con una vita come dono (divino).
4.1 „Sfuggire “ al mondo spegnendosi: Buddhismo
L’antica India con la sua varia tradizione induista non conosce altra soluzione per la ruota della vita che gira indifferentemente che la rinascita, la quale riprende sempre da capo il pesante ciclo: ma rinascita significa anche sete di vivere e nuova morte in una serie eterna, non conosce dunque soluzione.
Questa visione contiene elementi tanto minacciosi che il Gautama Buddha (5. sec. a.C.) chiese che la ruota si fermasse nel non essere e la vita si disperdesse nel nulla: nel Nirvana. Certo poi viene cancellato tutto ciò che significa „io“: la sete (di vivere) muore con l’assetato. Il dolore viene cancellato in quanto il sofferente sparisce. Così l’India nel Buddha stesso ha sviluppato come risposta la via della morte interiore, prima di qualsiasi felicità e delusione per svelenire la disgrazia del nascere. Morire prima della morte, questa è la soluzione del Buddha. La sua ascesi opera come ultimo slancio un disperdersi, come „fuga dalla casa che brucia“, mentre chi salta e fugge si dissolve definitivamente.
Nel Buddhismo originario dunque si ha una liberazione dal rinascere, considerato come una sventura, in un „attaccamento“ sempre colmo di paura e di avidità. La via verso la guarigione dall’affermazione di sé è ottuplicata: quanto più l’essere umano riduce la propria voglia di mangiare, di bere, di sesso e di potere, tanto più rapidamente si „sradicherà“. Questa concentrazione ascetica su se stessi è possibile tuttavia solo all’uomo, poiché nella donna l’“attaccamento“ alla vita è letteralmente incarnato – in quanto origine di nascite sempre nuove. L’asceta invece riesce a saltare nel nulla, a tirarsi fuori dalla rinascita e dalla paura esistenziale. Ma ciò è possibile solo ritirando completamente il sé. La vita attuale serve da trampolino verso la felicità, al non essere più – il che non è più esperibile come felicità. Schopenhauer paragona concretamente „la persona che si aspetta nella morte spiegazioni particolari a uno studioso che sta perseguendo un’importante scoperta, ma nell’attimo in cui pensa di intravvedere la soluzione gli viene spenta la luce.“
Secondo il Buddhismo dunque l’aggressione va „elusa“, minata alla base. Questo non è poco – ma c’è un’altra soluzione che prosciugare la sete stessa?
4.2 Antitesi alla violenza del mondo: il discorso della montagna
Il discorso della montagna di Gesù concentra elementi determinanti di una nuova antropologia, in cui invece l’acqua della vita affluisce sovrabbondante.
Nell’immagine dei figli di uno stesso padre amati allo stesso modo nasce il concetto di una nuova umanità contro la autoaffermazione naturale-istintiva sia del gruppo del noi che dell’egoismo del singolo. L’esigenza del discorso della montagna non è nientedimeno che vivere questa „perfezione assoluta del Padre celeste“. Novità determinante è il fatto che l’appello al forum internum, alla decisione di coscienza del singolo non giustificabile dall’esterno, ha portato ad un’ etica individuale. Base dell’etica è sempre la Thora, sotto forma di un’etica del tralasciare („non nuocere“); nelle antitesi del discorso della montagna essa viene però radicalizzata in un’etica del fare, che chiama il singolo ad un optimum virtutis: a dare il massimo – per l’altro.
E’ parte di ciò non solo il divieto della violenza, ma la conoscenza delle radici della violenza: nella propria anima, o, secondo l’espressione ebraica, „nel cuore“. Da qui derivano le antitesi acute che condannano non solo l’omicidio compiuto, ma partono dalla sua preparazione interna, apparentemente innocua, perché solo pensata: „Chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio“ (Mt 5, 22). Ciò che appare esagerato, ovvero far iniziare l’adulterio già dal solo „guardare una donna per desiderarla“ (Mt 5, 28), alla luce della psicologia e della „formattazione“ inconscia risulta pienamente plausibile. Anche la straordinaria richiesta di rinunciare alla vendetta, anzi, del porgere l’altra guancia (Mt 5, 39) perde il suo apparente „carattere poco virile“, se si considera la dinamica incontrollabile della rivalsa. E’ vero che la rinuncia alla violenza viene chiesta solo alla persona colpita, affinché si ritiri: non prevede l’inattività di fronte ad altre vittime o l’incosapevolezza di una possibile prevenzione. Al tempo stesso va evitata una frettolosa condanna, anzi un giudizio dell’altro riferito a se stessi: sette per settanta volte lo si deve perdonare, per impedire nel proprio „cuore“ la presunzione dell’autostima.
Gli spunti veterotestamentari vengono sviluppati appieno nel Vangelo – in teoria, certo generalmente non in pratica: anche il nemico è incluso nel comandamento dell’amore. Il concetto di lotta esiste solo contro il peccato, contro la malvagità propria e strutturale. E’ vero che la violenza fa parte di questo eone, ma ne dimostra il carattere corrotto proprio in questo. Il regno di Dio invece si costruisce senza violenza, i suoi profeti prescelti, anche il Figlio alla fin fine si abbandonano a questa violenza senza opporre resistenza. E’ vero che esistono mezzi legittimi di difesa, sopratutto per quanto riguarda il prossimo bisognoso di protezione, ma la violenza per imporsi religiosamente o in altro modo è riprovevole. (Rm. 12, 17sg; 1 Pt 2, 19sg).
4.2 „Scambio meraviglioso“ (admirabile commercium): liberazione dalla paura aggressiva
C’è una „caratteristica singolare“ del Cristianesimo nel suo modo di superamento del mondo. Cominciamo dall’inizio della colpa, come la descrive Gn 3: colpa è la divinamente grande possibilità sprecata di essere a immagine di Dio, di attingere il proprio volto senza riserve a un principio divino. Genesi 3 rifiuta chi ci dà la vita: racconta malignità perché sospetta che sia Lui che ci priva della vera vita. Agostino generalizza brevemente: la colpa è dell’“amor proprio accresciuto fino a discreditare Dio“ .
Qui inizia l’incarnazione di Gesù: „dar la propria vita in riscatto per molti “ (Mc 10, 44sg), così pure il „sangue dell’alleanza versato per molti “ (Mc 14, 24). Vita e sangue vengono immessi nel nulla, spalancato dal comportamento ontico, anzi dal comportamento personale sbagliato dell’uomo. La vittima Gesù precipita in questo abisso dell’uomo, che ha trascinato con sé il creato, si getta nel nulla per sostenerlo dal basso. La kenosis è il mistero del volontario „annientamento“ di Dio come lo enuncia l’inno dei Filippesi. „In Lui, ad una profondità irraggiungibile da qualsiasi psicologia e metafisica, è nata la volontà di ‚annientare se stesso’ (...) Così è sceso. Non solo sulla terra, bensì ad una profondità che non riusciamo a misurare; una profondità e un vuoto terribile, di cui abbiamo idea soltanto se davvero capiamo dall’interno che cos’è il peccato. E’ l’annientamento di chi sacrificandosi espia, redime e comincia di nuovo.“
Fa parte di ciò in modo terribile la non accettazione della vita di Gesù da parte di molti suoi contemporanei. Il suo sacrificio mira ad un admirabile commercium: „Il Signore paga per i suoi servi.“ Ciò significa rinuncia di Dio alla propria divinità, per riaprire la relazione originaria: essere-con invece dell’essere-io, vivere l’esistenza come dono e non come possesso.
La croce, formulata dal punto di vista del mondo colpevole, è:
- rinuncia alla „micidiale“ vita propria; è invece oblio di sé senza paura: vita nella proesistenza,
- guarigione dalla rottura delle relazioni annichilenti e maligne dell’individuo, il nuovo scambio comunicativo di doni = dono e restituzione reciproca della vita, nell’ „allegro scambio“ del ringraziamento a Dio, tra marito e moglie, tra fratelli e tra le creature; vivere la vita come relazione, dal „puro dono“ dell’origine divina e dell’altro uomo.
Bisogna notare naturalmente quanto sia stata terribile la rinuncia del Figlio alla sua filialità, come Balthasar dice con parole appassionate: „Così decisi di dare me stesso, di abbandonarmi. A chi? Non importa. Al peccato, al mondo, a tutti, al diavolo, alla Chiesa, al regno dei cieli, al Padre... di essere il sacrificato per antonomasia. Il corpo su cui si radunavano gli avvoltoi. Il divorato, mangiato, bevuto, sepolto, versato. La palla con cui giocare. Lo sfruttato. Lo spremuto fino alla feccia, il calpestato all’infinito, l’investito e travolto, rarefatto fino ad esser aria, il trascinato dai flutti nell’oceano.Lo spossato (...) Dio stesso era sfinito in me.“ Peccatum factum pro nobis si chiama l’inimmaginabile dramma secondo le parole di Paolo (2 Cor 5,21), laconico, terrificante e consolante al tempo stesso.
E’ consolante infatti: „L’amore scaccia ogni paura. Non rimane neppure cenere della mia colpa per quel fulmine dell’amore che divora tutto.“ In un’esperienza del genere la colpa angosciata diventa felice: ha trovato chi libera. „Onda su onda, maree di acqua e di sangue irrompono da te inesauribilmente, per sempre, (...), si riversano sui deserti della colpa, oltremisura arricchenti, superando ogni capacità di accogliere, sovrabbondanti per ogni desiderio.“
4.4 Vita in abbondanza: nel mondo, non del mondo
Il „sapore della grazia“ significa il puro dono della (nuova) vita in abbondanza senza obbligo di restituzione; „Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza“ (Gv 10, 10). Il pensiero del „puro dono“ aggiunge all’idea della mera logica dello scambio l’elemento nuovo determinante della trasformazione cristiana del mondo. Con ciò si introduce una nuova immagine di Dio; dalla „vita in abbondanza“ si riconosce l’imperfezione del mondo, della cultura in generale, che si fonda essenzialmente sullo scambio, ma non sul dare incondizionato. Il dono deve diventare „supererogatorio“, riversarsi oltre a ciò che desideriamo e ci aspettiamo o a ciò che ci spetta; secondo il paradigma di Gesù è il superfluo, pura „benevolenza“, gioia nel dare. „E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due; a chi vuol toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello.“ (Mt 5,40) Questo nuovo modo dell’esser buono si può „trasporre“ nel mondo sociale, per verificare e rielaborare ancora una volta la giustizia dello scambio. Allora , come correzione essenziale della frase do ut des, ne avremmo altra: „dà, perché ti è stato dato.“ Così la restituzione precisa si trasforma in un atteggiamento di dono libero, altruistico. L’esempio più chiaro è costituito dall’amore. Non si può comparare con la giustizia, esiste solo a livello di ciò che da entrambe le parti non è dovuto, che si concede liberamente. La sovrabbondanza deriva dalla libertà del concedere, come dono di sé: „Chi crede in me, fiumi da lui scorreranno di acqua viva.“ (Gv 7,38)
4.5 Superamento nel mondo della paura della morte
Ancora un’ultima conseguenza: il superamento del mondo deve superare anche la morte e la paura relativa della caducità della carne. Solo il Cristianesimo riuscì a formulare frasi, a differenza della cassa di risonanza dell’antica filosofia, in cui la carne diventa un perno:: caro cardo, oppure: carne carnem liberans: „Egli libera la carne mediante la carne.“
Secondo il Cristianesimo Dio non s’incarna semplicemente come forza dell’Es, come potenza magica, come dinamica mitica, ma in un volto umano. E in questa carne si è realizzata una cosa inaudita, compimento di ciò che era stato dato per certo: - ovvero la sua risurrezione dalla morte. Giobbe (13, 15) già gettava il proprio cuore oltre il muro della paura della morte: „Mi uccida pure, non me ne dolgo.“ In questo superamento della paura di morire sta la liberazione della vita.
La fine inevitabile dell’uomo cristianamente diventa compimento. Compimento significa in effetti: abolizione della morte come conseguenza dello sconvolgimento aggressivo del tutto. Il creato viene liberato in modo permanente „la creazione stessa attende di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.“ (Rm 8, 20sg) Doxa, la gloria degli uomini, diventerà visibile per la prima volta, nella persona a immagine e somiglianza del Creatore senza peccato e senza morte.
Questa grande escatologia comprende tutto, libera tutto e le lettere degli apostoli non hanno termine più appropriato per questo che doxa, gloria. L’apocalisse indica questo stesso concetto nell’immagine della città splendente, perfetta. E’ commovente e fa riflettere il fatto che il fine di ogni speranza viene annunciato in immagini mutevoli di pura bellezza – la bellezza è la fine delle vie del Signore. Eppure la bellezza è solo un riflesso di ciò che è veramente grande: il superamento della morte. In questo sta la concrezione massima della speranza: „Nel Dio che dà la vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono“, si può aver „fede contro ogni speranza“ (Rm 4, 13f).
5. Nel mondo, non del mondo
Proprio le grandi verità religiose – a causa della loro grandezza – richiedono un passaggio sconvolgente attraverso paure e resistenze: poi potrà venire la consolazione, solo allora chi ha sofferto saprà ciò che sa.
La concezione cristiana del mondo può parlare se sa di che cosa parla: dell’uomo totalmente spaurito, bisognoso di redenzione e redento. Il Cristianesimo può sostenere la sua differenza rispetto ad altre religioni umilmente, se la vede non in modo presuntuoso, ma edificante. Ha il vantaggio di affermare la vita, quella attuale e quella futura, di non vedere un estinzione come scopo della vita (il che oscurerebbe asceticamente anche questa vita) Il suo contenuto è un volto, una persona: il volto del Figlio, il suo immergersi nel dolore umano e la trasformazione profetizzata di tutto in una felicità splendente. Nihil humani alienum, niente di ciò che è umano gli è estraneo.
Così può esserci – con persone di religioni diverse - una comune attenzione per il creato, per il decoro del corpo e la lotta contro paure aggressive di ogni genere, si può anche tacere insieme e percepire la pace che nasce dal nostro intimo, una purificazione generale dei sensi dal sovraeccitamento – eppure per il cristiano questi sono solo pioli di una scala, che non porta semplicemente ad una natura divina, ad un sé divino, a un divino tutto-unico o nel nulla, ma al volto del Dio vivente. Che è nel contempo peraltro un volto umano incantevole. Non si può determinare a priori, ma neppure escludere quanto i pioli della scala di altre posizioni spirituali si avvicinino al mistero di Cristo. Ma respirare significa già adorare? L’ammirevole eliminazione del dolore, di cui sono capaci gli yogi, è davvero già la gioia di un incontro? L’esser Buddha è davvero lo stesso che la pienezza della vita di cui parla il discorso della montagna?
Nel discorso della montagna l’essere umano non si annulla, viene consolato. Invece dell’annientamento definitivo la Scrittura promette elevazione. Dio non è l’annientatore che ci priva, bensì Colui che completa l’identità. Anche la „carne“, che in tutte le culture simboleggia fugacità e decomposizione, viene trasformata in un „corpo privo di dolori“. La risurrezione di Gesù, in cui sul suo corpo trasfigurato conserva tutte le ferite del supplizio, è testimonianza della conservazione e trasfigurazione di tutto ciò che sulla terra viene spezzato, ferito e trascurato. Questa dottrina non insegna la paura, anzi è fondamentalmente superamento di ogni difesa. „Manteniamo senza vacillare la profondità della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso.“ (Eb 10, 23)
Allora ci chiediamo: è pensabile una vita di pienezza, senza paura né avidità? C’è una via verso un potere che sostituisca la nostra ossessione per noi stessi con la vita di Dio: Gratis e con amore si chiama la nuova melodia dell’esistenza, non più divorare ed essere divorati. Già nell’acqua del battesimo il nostro timoroso isolamento viene inondato, immerso nella vita originaria che fluisce. Dio è relazione, ardente dono di sé. Risponde alla sete di vivere spontaneamente, in modo superiore, con la mano aperta (come sappiamo, anche col cuore aperto). Certo non ci si libera di colpo della paura, dobbiamo tentare molte volte prima di lasciarci sciogliere da Lui. „Io sono parsimonioso, mio Dio, ma tu, tu hai il diritto di sprecarmi.“ (Rilke) La fede elimina il naturale avvinghiarsi a se stessi e concede la vita ad ognuno in sovrabbondanza. O allegro scambio: „Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.“ (Mt 10,8)
6. Il triplice consiglio del Vangelo nell’esperienza di Hildegard von Bingen
Chi riceve la nuova vita priva di paura può abbandonare una triplice avidità, una triplice lotta contro il „mondo“: la lotta per la ricchezza, per il sesso (come semplice soddisfazione di una pulsione), per il potere.
Il Vangelo consiglia di trasformare l’aggressione in forza:
- tramite la povertà; per maggiore scioltezza interiore: sapendo di ricevere sempre in sovrabbondanza
- mediante la castità: casto viene da conscius = conscio; e così la castità significa: sapere chi si ama, per amor suo soltanto;
- mediante l’obbedienza; riuscire a sentire la voce dell’autorità: è questa la voce che mi „fa crescere“ (augere); invece di esser schiavo dei miei umori.
Ciò contrasta davvero troppo con la nostra natura? Fidiamoci dell’esperienza di Hildegard von Bingen, che in quanto benedettina seguì questo triplice consiglio: „Se l’essere umano segue così ciò che è giusto, abbandona se stesso, attinge alla forza e beve. Ne viene rafforzato, proprio come le vene di chi beve si riempiono di vino. Non sarà mai smodato, come un ubriaco di vino perde il controllo e non sa più quello che fa. In questo modo i giusti amano Dio, in cui non c’è disgusto, ma solo felicità che dura.“
L’impegno è questo: abbandonare se stessi, ma abbandonarsi felici. C’è un volto, un nome, l’unico del resto, che ha da offrire questo vino: Christus medicus. La vita infatti è prevista per la gioia e la salute, non per l’infelicità. „L’amore ha così compiuto la sua opera, gradualmente, ma in modo chiaro e determinato, affinché non rimanga nessun punto debole, ma anzi vi sia ogni abbondanza.“ „Se qualcuno con trionfante sottomissione si sottopone a Dio e supera Satana, si ergerà e godrà della beatitudine della protezione divina. E se, nell’ardore per lo Spirito Santo, eleva il suo cuore e volge il suo sguardo a Dio, allora vi appariranno in luminosa chiarezza gli spiriti beati e offriranno a Dio il suo cuore.“
Sotto questa protezione l’uomo si si ergerà, rivivrà, allungherà il passo. La volontà di Dio si trasforma in movimento. „In lui trovo la ricchezza delle forze di Dio, sicché salgo fiducioso di forza in forza.“ E’ l’esperienza più antica: questo servizio non piega, ma rafforza. Chi è toccato da Dio non è schiavo, bensì libero. „Come sono belli i tuoi occhi, quando proclamano cose divine.“ E’ un ritorno a casa, non solo verso di Lui, ma verso se stessi – e insieme liberazione del mondo. „Se l’uomo apre il suo cuore a Dio e lo rende luminoso, rinverdirà tutto ciò che è arido. Grano e vino crescono grazie a questa forza misteriosa.“ Anche il grano e il vino del suo cuore. E non è conoscenza teorica o mistica trasognata, ma è vita di tutti i giorni e si può verificare proprio nel quotidiano. Accade una cosa sorprendente: qualcos’altro, no qualcun altro ha occupato il centro del pensiero e dell’azione e l’anima pesante scarica il suo peso, è più grande di prima. „Oh, spirito ardente, lode a te! [...] Di te arde il cuore degli uomini. E il petto abbraccia tutte le forze dell’anima. Da qui sorge la volontà e dà all’anima il suo buon sapore.“ La sicurezza con cui Hildegard descrive l’attrazione esercitata da Dio porta l’impronta della verità: dà forza da un’altra parte e a questa si può abbandonare, pur sanguinando da ogni ferita, ma beati. „Dal cuore nasce la guarigione, quando si intravvede l’alba di un nuovo inizio. E’ indicibile quale nuovo desiderio di Dio inizi e quale fervore per la sua opera, il nostro mondo.“ „E così l’uomo, dimora dei suoi miracoli, lo riconosce con l’occhio della fede e lo abbraccia con il bacio del sapere.“ Si, l’uomo tende istintivamente al bacio e all’abbraccio: li riceve costantemente e li trasmette allegramente.
Ciò significa essere nel mondo, ma non del mondo.
N. CMIS: Il testo originale è in tedesco
Come essere al servizio della Chiesa come laici e da laici?
Pierre Langeron
Signor Cardinale, Monsignore, cara Ewa, cari(e) amici(che),
In occasione di Pentecoste, il giornale cattolico francese La Croix ha pubblicato un dossier sul tema: “Quei laici che fanno funzionare la Chiesa”. E sotto il titolo, in prima pagina, appare una grande foto: una signora anziana che – da 25 anni, è precisato – sistema un bel mazzo di fiori davanti all’altare di una chiesa vuota... Shock delle foto! È forse già la risposta alla domanda che ci viene posta oggi pomeriggio? È questo il servizio che la Chiesa aspetta dai laici?
Andiamo fino all’assurdo: è possibile immaginare una Chiesa senza laici? Qualche anno fa a Firenze, al Museo degli Uffizi, un quadretto medievale aveva attirato la mia attenzione, con un titolo che era pressapoco: la città ideale. Si vedeva un bel villaggio con le sue case e la sua chiesa, in una campagna tranquilla; uomini e donne impegnati nelle occupazioni ordinarie della città terrena: aratori nei campi, artigiani nelle loro officine, donne in cucina. Da tutto il quadro emanava serenità e armonia, in una soffusa luce dorata. Davvero un bel quadro; una città pienamente cristiana, quasi come un compimento. Una piccola precisazione però: c’erano solo monaci e monache... Che strana immagine di una Chiesa... senza laici, e senza posterità! Orbene, una Chiesa senza laici sarebbe come una scuola senza scolari, o un ospedale senza ammalati.
Chiudiamo la parentesi sull’illusione simbolica di un artista del Medioevo e torniamo ad un’evidenza: ci sono dei laici nella Chiesa. E poiché si tratta di vedere in che modo i laici possono servire la Chiesa come laici, cominciamo coll’osservare la nostra assemblea. Si compone quasi esclusivamente di laici. I membri d’Istituti Secolari sono infatti laici e rimangono laici. Ricordo con piacere l’eccellente formula del nostro vecchio amico Mons. Dorronsoro: “pienamente laici e pienamente consacrati”. Non siamo laici a metà, non siamo consacrati a metà. È la grande “rivoluzione” della Provida Mater, per riprendere i termini di P. Beyer. Infatti, fino a quel momento, un laico che sceglieva la vita consacrata lasciava la condizione di laico e diventava religioso; non si poteva essere laici e consacrati, era l’uno o l’altro. Dal 1947 nei nostri Istituti è ormai possibile essere laici e consacrati, impegnarsi nella vita consacrata senza lasciare la condizione laica. Paolo VI parlava della “duplice realtà della vostra configurazione” . Laici al 100% e consacrati al 100%; ecco la meraviglia delle nostra vocazione, e pazienza per la matematica! Essere laico non è solo un modo di vivere, come se un religioso facesse un mestiere secolare e vivesse nelle condizioni ordinarie del mondo. Paolo VI spiegava: “La vostra condizione esistenziale e sociologica diventa vostra realtà teologica, è la vostra via per realizzare e testimoniare la salvezza.” Siamo pienamente laici e pienamente consacrati. Non è certo che nella Chiesa, nelle nostre parrocchie, e forse anche nei nostri Istituti, questa verità ontologica sia sempre ben capita e addirittura ben vissuta da alcuni membri.
D’altronde il cumulo di due stati di vita non è una novità nella Chiesa: è ovvio per tutti, e da molto tempo, che un sacerdote che si impegna nella vita consacrata rimane pienamente sacerdote pur diventando pienamente francescano, gesuita od oblato di Maria Immacolata. Cito come esempio i sacerdoti che si trovano nella nostra assemblea, che sono pienamente membri d’Istituti Secolari clericali: sono pienamente sacerdoti e pienamente consacrati; la loro consacrazione non toglie nulla al loro stato clericale.
Dopo aver brevemente ricordato alcuni dati riguardanti la nostra vocazione, possiamo ora entrare nel merito del nostro tema: “Come essere al servizio della Chiesa come laici e da laici?” È un tema molto vasto, e non sono né teologo, né storico, né sociologo, ma solo giurista, professore di diritto pubblico all’Università di Aix-Marseille in Francia, molto impegnato nella mia Università, ma anche nelle parrocchie, nella mia diocesi e nelle opere sociali ed educative della Chiesa. Ho anche vissuto come una grande grazia la mia partecipazione durante 9 anni al Bureau della Conferenza Nazionale degli Istituti Secolari di Francia, luogo di comunione fraterna e di scambi costruttivi, nonché organo motore di molte realizzazioni al servizio dei nostri Istituti.
Il nostro tema è come una montagna molto alta: la si può fotografare sotto diversi angoli senza mai esaurirla. I nostri precedenti Congressi hanno ampiamente sviluppato certi aspetti, come la presenza nel mondo e la secolarità. Peraltro tengo conto di altri interventi sul tema generale del nostro Congresso: “In ascolto di Dio nei solchi della storia: la secolarità parla alla consacrazione”. Nel tempo che mi è stato impartito, e per non abusare della vostra pazienza in questo caldo pomeriggio estivo, vorrei semplicemente vedere dettagliatamente con voi alcuni punti che, nel contesto attuale, sembrano meritare una particolare attenzione e una maggiore chiarezza. Li raggrupperò intorno a due assi semplici: prima i laici e la Chiesa, poi i laici e la missione della Chiesa, riferendomi sopratutto agli insegnamenti del Concilio Vaticano II, di cui celebriamo con gioia il 50° anniversario .
I. I LAICI E LA CHIESA
Centrerò il primo punto di questo mio intervento sulla Chiesa e il posto dei laici nella Chiesa. Non sono teologo; non mi arrischierei quindi in analisi teoriche che andrebbero ben al di là delle mie competenze, e mi limiterò pertanto ad alcuni testi essenziali di Vaticano II.
Per capire in che modo i laici sono chiamati a servire la Chiesa, dobbiamo prima porci una domanda fondamentale: come serviamo la Chiesa, dall’interno o dall’esterno? O meglio, qual è il nostro posto esatto di laici in relazione alla Chiesa? Siamo solo utenti esterni di servizi spirituali e materiali che ci offre la Chiesa? Oppure siamo dei protagonisti nella Chiesa, le diamo un contributo specifico?
Per rispondere al meglio a questa domanda, vi propongo di sviluppare la nostra riflessione in quattro tempi.
Cosa significa per un laico servire la Chiesa come laico?
Per poter capire bene la domanda, dobbiamo logicamente cominciare col chiederci cosa significa il termine “servizio”. Cosa ci insegna l’etimologia?
La parola service in francese, service in inglese, servizio in italiano o ancora servicio in spagnolo viene dal latino “servus”, che significava: schiavo. L’aspetto passivo è molto chiaro: servire significa obbedire. Anche il tedesco è vicino, ma con un’etimologia diversa: Dienst e bedienen. Ancora oggi, questo significato originale è utilizzato nel linguaggio corrente: si parla spesso e volentieri di personale di servizio, d’ingresso di servizio, di qualità del servizio in un ristorante, oppure di “servizio militare” (Wehrpflicht in tedesco, con in più la dimensione morale del dovere da compiere). In questa prima prospettiva, il laico al servizio della Chiesa appare innanzitutto come quello che obbedisce alle autorità della Chiesa.
Andiamo avanti con l’analisi della parola “servizio”. Il termine servus è stato arricchito da significati nuovi, come molti altri, all’epoca dell’impero romano d’Oriente, diventato ufficialmente cristiano dopo l’Editto di Tessalonica nel 380. Così come l’imperium è diventato ministerium (donde il qualificativo di ministeri nella Chiesa, ad esempio), allo stesso modo il servitium è diventato una funzione, una responsabilità al servizio degli altri. Oggi, per esempio, si parla senza equivoco di servizio pubblico: quello dell’educazione, della sanità, dei trasporti, ecc. Servizio pubblico significa anzitutto servizio per il pubblico – anche se, ahimè, non è sempre vero nella pratica! – In questa seconda prospettiva, il laico al servizio della Chiesa assume una funzione attiva a beneficio di altri membri della comunità dei credenti.
La parola “servizio” ha quindi due significati, che bisogna conoscere e distinguere. Prendiamo l’esempio di una scuola: i bambini e i loro genitori sono generalmente dei consumatori della formazione impartita e dei servizi offerti. Ma in certi paesi e in certe culture, i genitori e le autorità locali, talvolta anche i bambini, sono anche protagonisti della scuola, associati alle scelte pedagogiche, culturali e persino economiche. Si tratta non tanto della condivisione dell’autorità, quanto di una partecipazione al suo esercizio, con un contributo specifico.
I laici e la struttura della Chiesa
In un secondo tempo della nostra riflessione, e partendo dai due sensi della parola “servizio”, chiediamoci cos’è la Chiesa che i laici sono chiamati a servire da laici.
Nella costituzione dogmatica Lumen Gentium, la Chiesa è presentata anzitutto come un mistero, che varie immagini possono aiutare ad illustrare: costruzione, tempio, ovile, famiglia, campo di Dio, ecc. La Chiesa è anche presentata come il popolo di Dio, la folla degli uomini che credono in Cristo (christifideles) e che sono stati battezzati. La Chiesa è il Corpo mistico di Cristo, una comunità spirituale di fede, di speranza e di carità.
Ma è anche un’assemblea visibile, una società organizzata secondo un principio gerarchico : “Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il Popolo di Dio, ha istituito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo (..) perché tutti coloro che appartengono al Popolo di Dio (...) arrivino alla salvezza (...).”
Ci troviamo di fronte all’aspetto più conosciuto e visibile della Chiesa – istituzione: la distinzione tra chierici e laici. Tutti sappiamo che l’insieme del clero è strutturato a tre livelli: prima il collegio dei vescovi, di cui il Papa è il capo; poi i sacerdoti, che sono i collaboratori dei vescovi nell’esercizio della loro carica; e infine i diaconi. Tutti gli altri membri della Chiesa sono laici. Si è o chierici o laici: sive clericos, sive laicos, secondo la formula tradizionale. Un laico è quindi colui che non è chierico. Questa definizione negativa del laico giustifica una certa visione clericale della Chiesa che ha segnato secoli della nostra storia: la Chiesa, sono prima e soprattutto i chierici. Il linguaggio corrente ne ha d’altronde conservato molte tracce: in francese, per esempio, si parla ancora spesso e volentieri di “gens d’Église”, gente di Chiesa, o di “biens d’Église”, beni della Chiesa. E in alcune assemblee domenicali, la preghiera universale parla della Chiesa e dei suoi pastori, poi dei fedeli – come se i fedeli non fossero anch’essi la Chiesa.
Quest’approccio istituzionale ha generato una strana visione della Chiesa, l’immagine di una costruzione originale. Anzitutto, una piramide, ben strutturata, con i tre livelli di cui abbiamo già parlato. Al di sotto della piramide e distinta da essa, la massa informe dei fedeli. Infine e a lato, in una situazione assai complessa, l’insieme delle religiose e dei religiosi. Donde quella collocazione dei laici nella Chiesa, che un Papa aveva chiaramente sintetizzata: “Nessuno deve ignorare che la Chiesa è una società disuguale, nella quale Dio ha destinato alcuni come governanti, altri come servitori. Questi sono i laici, quelli sono i chierici". Sono parole di Gregorio XVI, a metà dell’Ottocento. Esprime bene, per i laici, il primo significato che abbiamo dato alla parola “servizio”: servire significa obbedire.
In questa logica, il servizio dei laici è ridotto al servizio dell’istituzione Chiesa; quello che diversi sociologi hanno chiamato clericalismo. Sin dal Medioevo occidentale, gli stessi Papi avevano rivendicato l’autorità del clero sui laici e sull’intera società civile. La migliore illustrazione è stata fornita dalla “teoria delle due spade”, in parte ispirata a San Bernardo: “In questa Chiesa e nel suo potere ci sono due spade (i.e. due poteri), una spirituale cioè, ed una temporale. Quindi ambedue sono in potere della Chiesa. Una invero deve essere impugnata per la Chiesa, l’altra dalla Chiesa. La seconda dal clero, la prima dalla mano di re o cavalieri, ma secondo il comando e la condiscendenza del clero.” Questi propositi molto ufficiali di Papa Bonifacio VIII, all’inizio del Trecento, illustrano la volontà, e spesso la prassi, della Chiesa di esercitare il suo potere sulla società temporale e l’attività dei laici. Qui, la nozione d’ubbidienza è primordiale, l’attività dei laici può esercitarsi solo nell’ambito e sotto l’autorità del clero.
In filosofia politica, quell’approccio medievale è stato qualificato di “agostinismo politico”, ovviamente in riferimento a S. Agostino, o più semplicemente di “sacerdotalismo”. Ha profondamente segnato la storia e la cultura dell’Occidente, forse fino ai nostri giorni. Ecco alcuni esempi:
- Nel Medioevo: i Papi facevano e disfacevano i re e gli imperatori; la storia della Germania o della Sicilia, per esempio, ne è stata profondamente segnata;
- Tra gli errori enunciati nel 1864 dal Beato Papa Pio IX nel famoso Syllabus: qualsiasi separazione della Chiesa e dello Stato è condannata in quanto la Chiesa perderebbe il suo potere e la sua influenza sullo Stato (N. 55);
- La società quebecchese è vissuta a lungo in stretta dipendenza dal clero, persino nelle questioni prettamente personali e familiari; oggi quel lungo periodo è a volte criticato come “il tempo della grande oscurità”;
- Nell’Italia del dopoguerra, caratterizzata dall’esistenza di due grandi partiti, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, alcuni vescovi non esitavano ad illuminare i loro fedeli, ricordando loro insistentemente, nel momento delle elezioni, che erano in una democrazia e che erano cristiani...;
- Ricordiamo infine che la catechesi è rimasta a lungo monopolio del clero e delle religiose perché i laici non erano ritenuti affidabili, anche se ben formati.
Si potrebbe anche aggiungere che oggi, in certi paesi di antica cristianità dove l’importanza della Chiesa continua a diminuire, si constata quasi un ritorno di quel clericalismo. Per alcuni giovani sacerdoti, per esempio, esso rappresenta una risposta comprensibile alla necessità di rafforzare un’identità minacciata. Per altri, talvolta, alimenta la speranza di un ritorno alla piramide di autorità, dove i laici ritornerebbero ad essere degli esecutori fedeli.
Si può infine notare che quella visione clericale della Chiesa è stata diversamente applicata nei paesi dove il cristianesimo si è impiantato più tardivamente. Spesso, i missionari occidentali l’hanno portata con loro per convinzione o per necessità. Al contrario, a volte sono stati soprattutto i laici a portare la fiamma della Chiesa, come tra l’altro in Corea o in Giappone.
Ad ogni modo, uno dei primi compiti dei laici rimane quello di impegnarsi nelle varie attività delle loro parrocchie, diocesi e movimenti. Ma questo servizio è davvero l’unico e il più importante per un laico?
I laici e la Chiesa secondo Vaticano II
Abbiamo ricordato all’inizio i due significati della parola “servizio”, e ne abbiamo appena visto un’illustrazione riduttiva. Consideriamo ora la vera ecclesiologia che il Concilio ci ricorda con chiarezza. In Lumen Gentium infatti, il principio della costituzione gerarchica della Chiesa è naturalmente ricordato, ma è chiarito, interpretato come una comunione di servizi tra il clero e i laici. Da un lato “i ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà, servono i fratelli” . Dall’altro, i laici sono al servizio dell’intera Chiesa: “D’altra parte i Pastori riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa; con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e campo di agire (...)” . Naturalmente la piramide sussiste, ma si iscrive ormai in un cerchio di relazioni e servizi reciproci.
Il Beato Giovanni Paolo II ha chiaramente sviluppato quest’immagine della Chiesa - comunione nella sua Esortazione sui Laici: “La comunione ecclesiale si configura, più precisamente, come una comunione «organica», analoga a quella di un corpo vivo e operante: essa, infatti, è caratterizzata dalla compresenza della diversità e della complementarietà delle vocazioni e condizioni di vita, dei ministeri, dei carismi e delle responsabilità. Grazie a questa diversità e complementarietà ogni fedele laico si trova in relazione con tutto il corpo e ad esso offre il suo proprio contributo.”
Per noi, Istituti Secolari, Paolo VI disse anche: “Gli Istituti Secolari vanno inquadrati nella prospettiva in cui il Concilio Vaticano II ha presentato la Chiesa come una realtà viva, visibile e spirituale insieme (...) composta da molti membri e da organi diversi, ma intimamente uniti e comunicanti fra sé, partecipi della stessa fede, della stessa vita, della stessa missione, della stessa responsabilità della Chiesa, e pur distinti da un dono, da un carisma particolare dello Spirito vivificante (...).”
A questa comunione di vocazioni e di servizi, Lumen Gentium aggiunge l’uguaglianza di tutti i fedeli di Cristo: “Uno è quindi il popolo eletto di Dio (...). Comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione. (...) Vige tra tutti una vera uguaglianza.”
Comunione di servizi, uguaglianza di tutti i fedeli; rimane la missione della Chiesa. Il decreto conciliare sull’Apostolato dei Laici dice: “C’è nella Chiesa diversità di ministero ma unità di missione. Gli apostoli e i loro successori hanno avuto da Cristo l’ufficio di insegnare, reggere e santificare in suo nome e con la sua autorità. Ma anche i laici, essendo partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, nella missione di tutto il Popolo di Dio hanno il proprio compito nella Chiesa e nel mondo.” Quindi i laici, come il clero, sono pienamente al servizio della missione della Chiesa nel mondo, ciascuno secondo il proprio stato. Ne riparleremo nella seconda parte del mio intervento.
Un’ultima osservazione sulla relazione tra i diversi membri della Chiesa. Occorre riconoscere che l’ecclesiologia rinnovata di Vaticano II ha generato a sua volta degli eccessi, in una direzione opposta agli eccessi precedenti. Dimenticando la struttura gerarchica della Chiesa, o minimizzandola, certi laici hanno in qualche modo laicizzato tutta la Chiesa, affermando addirittura, come per esempio in Austria: “Wir sind die Kirche”; traduco: noi, laici, siamo la Chiesa. È una rivendicazione altrettanto sbagliata; non c’è Chiesa senza clero! Con molta finezza e abilità, il Santo Padre Benedetto XVI ha risposto durante il suo ultimo viaggio in Germania: “Wir alle sind di Kirche”; traduco: noi tutti siamo la Chiesa, laici e clero! A un livello più modesto, si può incontrare la stessa deriva nelle parrocchie, e ne conosco in Francia, dove il parroco non decide nulla senza l’accordo dei laici: l’intera comunità esercita la responsabilità pastorale e materiale. Bisogna ammettere che la grave carenza di vocazioni sacerdotali incoraggia a volte soluzioni alternative. Esistono anche parrocchie e diocesi immense in alcuni continenti, con pochissimi sacerdoti: si può capire in questo caso che i laici, e anche i membri d’Istituti Secolari, assumano responsabilità pastorali. Bisogna forse preoccuparsi di tali pratiche? In sociologia esiste una legge del buon senso, la legge del bilanciere: un movimento eccessivo in un senso produce un movimento quasi altrettanto eccessivo nell’altro senso; con il tempo, il bilanciere giunge quasi all’equilibrio. Questo movimento inverso è forse necessario per evitare di andare troppo indietro.
La tria munera
Per capire bene la collocazione e il servizio dei laici nella Chiesa, dobbiamo considerare un aspetto essenziale che gli specialisti chiamano la tria munera. Con il battesimo, infatti, i laici partecipano alla triplice funzione di Cristo e della Chiesa: funzione sacerdotale, funzione profetica e funzione regale. In quale modo? Vaticano II e l’Esortazione di Giovanni Paolo II sui Laici lo precisano:
- La funzione sacerdotale: “Tutte infatti le loro opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e persino le molestie della vita se sono sopportate con pazienza, diventano spirituali sacrifici graditi a Dio per Gesù Cristo, i quali nella celebrazione dell’Eucaristia sono piissimamente offerti al Padre insieme con l’oblazione del Corpo del Signore. Così anche i laici, in quanto adoratori dovunque santamente operanti, consacrano a Dio il mondo stesso.” Dobbiamo ritenere tre componenti: posto centrale dell’Eucaristia, dimensione spirituale di tutta la vita ordinaria, e infine consecratio mundi, la consacrazione del mondo; questo concetto chiave illumina tutta la nostra vita e la nostra missione di laici nella Chiesa; purtroppo è poco noto e spesso non capito.
Per noi, membri di Istituti Secolari, Paolo VI ha detto: “E avrete così un campo vostro ed immenso, nel quale svolgere la duplice opera vostra: la vostra santificazione personale, la vostra anima, e quella "consecratio mundi", di cui conoscete il delicato e attraente impegno, e cioè il campo del mondo; del mondo umano, qual è, nella sua inquieta e abbagliante attualità, nelle sue virtù e nelle sue passioni, nelle sue possibilità di bene e nella sua gravitazione verso il male.” - La funzione profetica: i laici l’esercitano anzitutto con la loro testimonianza di vita, “perché la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana, familiare e sociale”. La esercitano anche con la parola, nella loro famiglia, nell’ambiente di lavoro e nei loro vari impegni sociali e pastorali; in questo modo, i laici possono partecipare pienamente alle attività di catechesi, purché siano adeguatamente formati. Infine, possono assumere compiti di accompagnamento spirituale in quanto questa funzione non è esclusivamente riservata ai sacerdoti: si pensi a tutte le religiose che hanno responsabilità nelle propre congregazioni, ma anche a laici come Chiara Lubich in Italia, fondatrice dei Focolari, Marthe Robin in Francia, fondatrice dei Foyers de charité, Jean Vanier in Canada, fondatore dell’Arche.
- La funzione regale: spetta ai laici contribuire ad instaurare il Regno di Dio nel mondo. “Inoltre i laici, anche consociando le forze, risanino le istituzioni e le condizioni del mondo, se ve ne siano che spingano i costumi al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano l’esercizio delle virtù. Così agendo impregneranno di valore morale la cultura e le opere umane. In questo modo il campo del mondo è meglio preparato per il seme della parola divina, e insieme più aperte sono le porte della Chiesa, per le quali l’annunzio della pace entri nel mondo.”
Per concludere questo primo punto sui laici e la Chiesa, è bene ricordare che essere laici non è soltanto una condizione sociologica o un semplice stato di fatto nella Chiesa. In Christifideles laici, il Beato Giovanni Paolo II sviluppa una magnifica teologia del laicato. Rifacendosi alla parabola evangelica degli operai della vigna, comincia infatti col sottolineare che lo stato laico non è uno stato per difetto (è laico chi non appartiene al clero), ma uno stato positivo nel quale ciascuno è oggetto di una chiamata particolare del Maestro della vigna: “Tutti sono chiamati a lavorare alla vigna”. Esiste sì una vocazione laica, come esiste una vocazione sacerdotale o religiosa. Questa vocazione, Dio l’affida a tutti i laici; bisogna naturalmente saperlo, ascoltare e poi rispondere. Dobbiamo chiederci se, anche nei nostri Istituti, siamo veramente consapevoli di questa vocazione. Si potrebbe forse suggerire che, in seguito all’anno sacerdotale, ampiamente celebrato nel 2009/2010, la Chiesa universale indica anche un anno del laicato? Cosa ne pensate? Sarebbe forse un progetto da sostenere da parte dei nostri Istituti...
II. I LAICI E LA MISSIONE DELLA CHIESA
Dopo aver esaminato la collocazione e lo statuto dei laici nella Chiesa possiamo, in un secondo tempo della nostra comune riflessione, porci domande sul ruolo dei laici nella missione della Chiesa. Qual è la specificità e l’oggetto della loro partecipazione? E fin dove va la loro responsabilità?
Ancora una volta, vi prego di scusare la mia incompetenza in materia di teologia. Quindi, per esprimere semplicemente la missione di Cristo e della Chiesa nella sua grandezza universale e cosmica, mi limiterò a citare San Paolo: il Padre “ci ha manifestato il mistero della sua volontà secondo il suo benevolo disegno che aveva in lui formato, per realizzarlo nella pienezza dei tempi: accentrare nel Cristo tutti gli esseri, quelli celesti e quelli terrestri” . È il grande mistero della nostra fede cristiana: l’opera della redenzione e della salvezza.
La missione della Chiesa
Il Concilio esplicita chiaramente la missione dell’intera Chiesa: “L’opera della redenzione di Cristo, mentre per natura sua ha come fine la salvezza degli uomini, abbraccia pure la instaurazione di tutto l’ordine temporale. Per cui la missione della Chiesa non è soltanto portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche animare e perfezionare l’ordine temporale con lo spirito evangelico.” Questo testo è essenziale per noi. È nel cuore del Decreto sull’Apostolato dei Laici, al numero 5. Merita di essere dettagliatamente commentato.
Cominciamo dunque con l’individuarne la struttura:
- Anzitutto, uno scopo: l’opera della redenzione di Cristo; si tratta proprio della dimensione teologica, e qui persino escatologica, della missione di Cristo e della Chiesa; non uno scopo in particolare, ma uno scopo generale, globale, essenziale.
- Poi, per raggiungere questo scopo, due vie complementari: la salvezza degli uomini da una parte, e il rinnovamento dell’ordine temporale dall’altra; torneremo su questo punto più avanti.
- Infine, due serie di protagonisti: il testo consente di distinguere la responsabilità rispettiva del clero e dei laici: spetta prima al clero portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, attraverso la predicazione e i sacramenti; spetta prima ai laici animare e perfezionare l’ordine temporale con lo spirito evangelico.
Il testo ci consente poi di approfondire il servizio che i laici possono assumere nella Chiesa. Ripropongo qui tre elementi utili alla nostra riflessione.
1/ La missione comune di tutta la Chiesa: c’è una sola missione, ma ha due obiettivi distinti. I campi e i mezzi sono diversi, ma c’è un solo scopo. Il decreto sull’Apostolato dei Laici precisa al riguardo: “Questi ordini, sebbene siano distinti, tuttavia nell’unico disegno divino sono così legati, che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una creazione novella, in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto alla fine del tempo.”
Sembra chiaro. Ma nel tempo e nello spazio, la missione della Chiesa non è sempre stata percepita in questo modo. Per esempio, negli ultimi secoli la Chiesa cattolica ha incontrato molta ostilità: persecuzioni in Giappone, in Vietnam o in Cina, Rivoluzione francese, Kulturkampf in Germania, guerra dei Cristeros in Messico, anticlericalismo italiano, guerra di Spagna, ecc. La Chiesa si è spesso ripiegata sulla sua missione spirituale: la liturgia, i sacramenti, la preghiera e le devozioni, i pellegrinaggi, la morale personale, familiare e sessuale. Un grande Gesuita, Michel de Certeau, ha persino parlato di una “Chiesa fuori dalla storia” – ma era meno vero nei paesi di missione.
Quell’approccio restrittivo della vita cristiana esiste tuttora. Oggi per esempio troviamo, in diversi continenti, molte popolazioni molto credenti e praticanti, ma che riducono talvolta la vita cristiana a questa dimensione troppo esclusivamente spirituale e sacramentale. Nel marzo scorso, sull’aereo che lo conduceva in Messico, il nostro Papa Benedetto XVI ha parlato di questa situazione. Con il grande coraggio di verità che lo caratterizza, ha osato qualificarla di schizofrenia: “Si vede, in America Latina ma anche altrove, presso non pochi cattolici, una certa schizofrenia tra morale individuale e pubblica: personalmente, nella sfera individuale, sono cattolici, credenti, ma nella vita pubblica seguono altre strade che non corrispondono ai grandi valori del Vangelo, che sono necessari per la fondazione di una società giusta. Quindi, bisogna educare a superare questa schizofrenia, educare non solo ad una morale individuale, ma ad una morale pubblica, e questo cerchiamo di farlo con la Dottrina Sociale della Chiesa”.
Consentitemi di citare un esempio più personale. Un membro del mio Istituto è filippino. Lavora a Marsiglia in una grande impresa, la quale è stata tempo fa oggetto di un controllo fiscale, all’esito del quale è stata condannata a pagare una multa salata. L’ispettore ha detto chiaramente che poteva cancellare la multa se gli si dava discretamente, in banconote, una somma da trattare. Ha insistito a lungo, poi si è innervosito: “Dobbiamo assolutamente concludere prima delle 17, perché devo andare in chiesa per la Via Crucis e la S. Messa”...!
Per aiutare a precisare la missione della Chiesa, e quindi quella dei laici, il Concilio riprende i temi di S. Agostino e richiama in modo chiaro quella “compenetrazione di città terrena e città celeste” ; “Il distacco, che si constata in molti tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo. (...) Non si venga ad opporre, perciò, così per niente, le attività professionali e sociali da una parte, e la vita religiosa dall’altra. Il Cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso (...)”. Il testo incoraggia poi i cristiani ad operare una sintesi vitale tra i due ambiti, spirituale e temporale.
La Chiesa e la sua missione si possono capire soltanto nella prospettiva dell’Incarnazione.
2/ La salvezza degli uomini: dietro all’apparente banalità di questa nota espressione, vi è una grande verità che il Concilio ha riportato alla luce. Infatti, fino a quel momento era d’uso parlare nella Chiesa delle anime più che degli uomini. Avevate notato quella piccola differenza nelle parole? Ieri, si diceva solitamente che bisognava salvare le anime, condurre le anime a Dio, ecc. A partire da Vaticano II, la Chiesa parla soprattutto degli uomini. Infatti è l’intera antropologia cristiana ad essere in causa in questa questione di vocabolario. La Chiesa ricorda con forza che l’uomo è “unità di anima e di corpo” . È stato probabilmente il Beato Giovanni Paolo II ad esprimere meglio questo mistero, con la forza e la potenza abituale delle sue formule. Sin dalla sua prima Enciclica, Redemptor hominis, scandisce in un solo paragrafo: “l’uomo reale, l’uomo concreto, l’uomo storico, l’uomo nella sua interezza, tutto l’uomo, l’uomo nella sua piena dimensione, in tutta la sua verità, nella sua realtà umana, quest’uomo è la via della Chiesa” .
Per misurare pienamente la portata di quest’osservazione, vorrei citare due esempi un po’ estremi, ma proprio per questo molto rivelatori.
Qualche anno fa, in una rivista cattolica, ho scoperto l’attività di una congregazione missionaria a Calcutta, alla fine dell’Ottocento. La sua missione principale era quella di battezzare i bambini che morivano nelle strade. I resoconti redatti per la casa generalizia menzionavano regolarmente il numero di bambini che erano stati inviati in Paradiso. Le anime erano salve. Ma mi chiedo se non bisognava prima salvare i corpi e dare da mangiare a quei bambini. Un secolo dopo, la Beata Madre Teresa non cercava di battezzare tutti i moribondi che accoglieva; li curava a Kalighat.
Ecco un secondo esempio estremo. Non molto tempo fa, nel cappellanato universitario per il quale lavoro da più di 25 anni, uno studente molto credente affermava la sua posizione nei confronti dei giovani affetti da AIDS: “Hanno peccato, si confessino, e pazienza se muiono: avranno l’anima salva”. Sono le parole terribili di una persona chiusa nelle sue convinzioni e tagliente come una lama di coltello.
Quindi è proprio “l’uomo, tutto l’uomo”, per riprendere la famosa formula di Paolo VI , che la Chiesa deve considerare e che è oggetto della sua missione e della sua carità pastorale.
3/ Perfezionare l’ordine temporale con lo spirito evangelico: il testo che commentiamo indica 3 ambiti per la missione della Chiesa:
- Diffondere la grazia di Cristo: principalmente attraverso i sacramenti; questa partecipazione alla carica sacerdotale di Cristo spetta naturalmente al clero;
- Portare il messaggio di Cristo agli uomini: questa partecipazione alla carica profetica di Cristo è condivisa tra il clero e i laici;
- Rinnovare tutto l’ordine temporale, penetrare e perfezionare l’ordine temporale con lo spirito evangelico: questa partecipazione alla carica regale di Cristo spetta quasi esclusivamente ai laici. Quest’ultimo punto arricchirà la nostra riflessione e merita di essere sviluppato.
Il Concilio spiega: “Ai laici tocca assumere la instaurazione dell’ordine temporale come compito proprio. (...) Tutte le realtà che costituiscono l’ordine temporale, cioè i beni della vita, della famiglia, la cultura, l’economia, le arti e le professioni, le istituzioni della comunità politica, le relazioni internazionali e così via, come pure il loro evolversi e progredire, non soltanto sono mezzi con cui l’uomo può raggiungere il suo fine ultimo, ma hanno un “valore” proprio, riposto in esse da Dio.”
Per Dio, per la Chiesa e per ognuno di noi, il mondo ha quindi un valore proprio. Ne siamo davvero consapevoli? Il mondo è stato troppo spesso percepito in modo negativo, nella Chiesa, come il regno del demone e del peccato: “Se il mondo vi odia, - disse Gesù - sappiate che ha odiato me prima di voi. Non siete del mondo, per questo il mondo vi odia (...) perché il principe di questo mondo è già giudicato.” Senza dimenticare che San Giovanni ci dice anche: “Dio infatti ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo Figlio Unigenito affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Dio infatti non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.”
Già nell’introduzione, Gaudium et Spes ci invita ad avere una visione grandiosa e magnifica del mondo che riconcilia questi due aspetti: “Il mondo che esso (il concilio) ha presente è perciò quello degli uomini, ossia l’intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive. (...) mondo certamente posto sotto la schiavitù del peccato, ma dal Cristo crocifisso e risorto, con la sconfitta del Maligno, liberato e destinato, secondo il proposito divino, a trasformarsi e a giungere al suo compimento.”
Questa prospettiva delineata dal Concilio chiarisce in profondità la responsabilità specifica dei laici nella Chiesa: “Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. (...) Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l’esercizio del proprio ufficio e sotto la guida dello spirito evangelico (...). A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che sempre siano fatte secondo Cristo, e crescano e siano di lode al Creatore e Redentore.”
La dottrina sociale della Chiesa
Come fare per “trasfigurare il mondo secondo il Vangelo”, secondo la bellissima formula del Beato Giovanni Paolo II? Se il Magistero parla in primo luogo della vita familiare e della sfera della vita privata di ognuno di noi, insiste anche sul suo aspetto collettivo, sociale, nel senso lato del termine. E qui dobbiamo ricordare il ruolo e l’importanza della dottrina sociale della Chiesa. Infatti da oltre un secolo, la Chiesa madre ed educatrice, Mater et Magistra, come diceva il Beato Giovanni XXIII, illumina il nostro sguardo e orienta la nostra azione di laici nel mondo. Quell’insegnamento è stato segnato, all’inizio, dall’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, nel 1891. Si è notevolmente sviluppato in seguito. Copre oggi quasi tutti gli aspetti della vita sociale: il lavoro, la pace e lo sviluppo dei diritti umani, le sregolatezze del commercio internazionale e della finanza mondiale, la protezione dell’ambiente, ecc. La sua espressione più recente è la grande enciclica del nostro Papa Benedetto XVI: Caritas in veritate.
Non si tratta qui di esplorare quest’immenso tesoro insieme a voi. Ma per arricchire ulteriormente la nostra riflessione sulla missione dei laici nella Chiesa, citerò solamente la definizione sintetica dell’intero insegnamento: “La dottrina sociale della Chiesa propone principi di riflessione; formula criteri di giudizio, offre orientamenti per l'azione.”
Riprendiamo ora ognuno di quei tre elementi:
- La Chiesa propone principi di riflessione: la Scrittura e la Tradizione della Chiesa ci offrono principi sicuri e fondamentali, quali la dignità della persona umana, le esigenze della giustizia, della verità e della carità, la ricerca del bene comune, ecc. Troviamo questi principi esposti in grandi documenti come Pacem in terris, Populorum progressio, Laborem exercens, Evangelium vitae, ecc.
- Applicati a situazioni concrete, quei principi consentono di trarre alcuni criteri di giudizio. Per esempio, nell’oscuro contesto del 1937, Pio XI analizza le fondamenta del comunismo e del nazionalismo (Divini redemptoris e Mit brennender Sorge). Dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo del blocco sovietico, il Beato Giovanni Paolo II propone una sua analisi della nuova situazione mondiale (Centesimus annus, 1991). Il nostro Papa Benedetto XVI presenta nel 2009 una coraggiosa e lucida analisi degli eccessi del capitalismo mondiale e dell’individualismo liberale, e delle loro conseguenze (Caritas in veritate).
- Infine, il Magistero offre orientamenti per l’azione. In situazioni concrete, le autorità possono invitare i cristiani ad agire insieme in un determinato senso. Pensiamo per esempio alla straordinaria resistenza della Chiesa polacca ai tempi del comunismo, sotto la guida del cardinale Wyszynski. Pensiamo alla lotta contro le leggi favorevoli all’aborto o al matrimonio omosessuale, in Spagna e altrove. Pensiamo alla lotta contro la corruzione, le ingiustizie e la droga, in molti paesi del mondo.
La dottrina sociale della Chiesa illumina e orienta la missione dei laici nel mondo, ma non la determina. Non c’è infatti un regime politico cristiano, una economia cristiana, una pedagogia o una medicina cristiana. Ma c’è un modo cristiano di fare politica, economia, pedagogia o medicina. Avete osservato i 3 verbi utilizzati in questa definizione? “Proporre”, “formulare”, “offrire”. Non sono imperativi. Al contrario, aprono alla diversità delle risposte possibili, al pluralismo che non è stato sempre ben accetto nella pratica dei cristiani. Eppure!
Ad esempio, un secolo e mezzo fa, in una Francia molto monarchica, era vietato ai cattolici sostenere una Repubblica ereditata dalla Rivoluzione; nella stessa epoca, in Italia era vietato ai cattolici sostenere la monarchia che aveva appena annesso Roma. Oppure, durante la Seconda Guerra mondiale in Europa, c’erano vescovi e cattolici nei due campi. Allo stesso modo, oggi, la Conferenza Episcopale degli Stati Uniti è forse la sola ad aver preso posizione contro l’arma nucleare.
Questo pluralismo di scelte possibili illumina la responsabilità personale di ogni laico nel mondo, ambito nel quale il Concilio riconosce la giusta autonomia delle realtà temporali: “Si tratta di una esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma anche è conforme al volere del Creatore.” Libertà e responsabilità dei laici. Paolo VI lo ricordava ai membri degli Istituti Secolari: “Il primo atteggiamento da tenere davanti al mondo è quello del rispetto verso la sua legittima autonomia, verso i suoi valori e le sue leggi.” Tuttavia questa autonomia non significa indipendenza; le cose create dipendono da Dio, e gli uomini non possono disporne a loro piacimento, senza riferirsi al Creatore. E non possono nemmeno avviarsi in un cammino contrario alle esigenze della loro fede.
Quindi, come possono i laici effettuare le loro scelte e decidere delle loro azioni nel mondo? Il Concilio risponde nel seguente modo: “Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero.”
Per esercitare nel miglior modo la loro missione nella Chiesa, i laici hanno quindi due strumenti, due bussole:
- Uno strumento oggettivo per illuminarli intellettualmente: la dottrina sociale della Chiesa; il Beato Giovanni Paolo II ne ha persino fatto uno dei tre pilastri di una formazione seria dei laici, con la formazione dottrinale e la formazione spirituale;
- Uno strumento soggettivo per illuminarli spiritualmente: la loro coscienza. È un’esigenza essenziale per la missione dei laici nella Chiesa, perché non è necessario essere credenti per applicare questa Dottrina sociale. Gaudium et spes descrive così la coscienza, ispirandosi al Beato John Henry Newman: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria.” Per ubbidire alla sua coscienza, il laico deve quindi imparare anche a discernere la voce di Dio nel silenzio interiore. Non può assumere la sua missione nella Chiesa senza sviluppare la propria interiorità nel segreto della preghiera; non può servire Dio nel mondo se non ascolta prima, nella fede, la voce di Dio nell’intimità della preghiera. Infatti i laici – sempre che siano credenti – sono prima di tutto strumenti viventi e collaboratori dello Spirito Santo, l’unico vero maestro e agente della missione.
È ora giunto il momento di concludere questo mio lungo intervento.
Vorrei prima di tutto sottolineare uno slittamento semantico che ho introdotto con discrezione. Infatti, sono partito dal tema proposto: “il servizio della Chiesa come laici e da laici”; poi il tema è progressivamente diventato “la missione dei laici nella Chiesa”: la missione è più ricca di significato che non il servizio; e “della Chiesa” è diventato in modo più esplicito “nella Chiesa”. È già un modo di rispondere alla domanda posta.
D’altra parte, e per sottolineare l’urgenza dell’impegno dei laici nella missione dell’intera Chiesa, vorrei rievocare brevemente un ricordo personale. Circa venti anni fa, ho lavorato durante un semestre all’Università di Tubinga, in Germania. Durante il periodo di Quaresima, le chiese avevano affisso una bella frase scritta in caratteri cubitali: “Gott hat keine Hände, nur deine”, Dio non ha altre mani che le tue; che invito!
A modo suo, S. Ignazio di Loyola ci invitava a “pregare Dio come se tutto dipendesse da Lui, e ad agire come se tutto dipendesse da noi”. E il Beato Giovanni Paolo II disse ai laici: “Situazioni nuove, sia ecclesiali sia sociali, economiche, politiche e culturali, reclamano oggi, con una forza del tutto particolare, l'azione dei fedeli laici. Se il disimpegno è sempre stato inaccettabile, il tempo presente lo rende ancora più colpevole. Non è lecito a nessuno rimanere in ozio". Noi qui, membri d’Istituti Secolari, lasciamo risuonare in noi quelle formule di Paolo VI che conosciamo bene e che sintetizzano perfettamente il nostro ideale:
- “alpinisti dello spirito”
- “siete nel mondo e non del mondo, ma per il mondo”
- “ala avanzata della Chiesa nel mondo”
- “laboratorio sperimentale” nel quale la Chiesa verifica le modalità concrete dei suoi rapporti con il mondo”.
Per concludere, e poiché siamo ad Assisi, nella fraterna vicinanza di San Francesco, ascoltiamo una delle sue preghiere alla luce di tutto quello che abbiamo appena detto:
Signore,
fa' di me uno strumento della tua pace.
Dov'è odio, fa' che io porti l'amore;
dov'è offesa, che io porti il perdono;
dov'è discordia, che io porti l'armonia;
dov'è errore, che io porti la verità;
dov'è dubbio, che io porti la fede;
dov'è disperazione, che io porti la speranza;
dove sono le tenebre, che io porti la luce;
dov'è tristezza, che io porti la gioia.
Grazie per la vostra paziente e benevola attenzione!
N. CMIS: Il testo originale è in francese
Un nuovo modello di santitácome fedeltá a Dio nel mondo
Mons. Gérald Cyprien Lacroix
Arcivescovo di Québec
Primate del Canada
Una bellissima canzone del grande poeta quebecchese Félix Leclerc dice : «C’est beau la vie, c’est grand la mort, c’est plein de vie dedans” (La vita è bella, la morte è grande, è piena di vita). Riguardo al tema che mi è stato chiesto di esporre oggi nell’ambito di questa Conferenza Mondiale degli Istituti Secolari, ho voluto parafrasare il nostro illustre cantautore a modo mio: “La vita è santa, la morte è santa, è piena di Dio”! Infatti, poiché Dio è santo, addirittura tre volte santo, l’opera sua non porta forse in sé l’impronta stessa del suo Creatore ?
Riflettiamo da ieri sulla sfida che dobbiamo affrontare, cioè quella che consiste nell’ascoltare Dio sui sentieri della storia nella quale siamo chiamati a vivere intensamente la nostra vocazione cristiana. Cerchiamo di definire nuovi modelli di santità nel mondo, pur rimanendo fedeli a Dio.
Vorrei subito darvi, in una parola sola, la chiave interpretativa del mio pensiero riguardo alla santità, alla sua essenza e alla sua più bella manifestazione, Gesù Cristo! È Lui il nuovo modello di santità. È Lui che ha incarnato la fedeltà a Dio nel mondo. Non troveremo niente di nuovo al di fuori di Lui, perché Egli è l’Alfa e l’Omega. “Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e nei secoli” (Eb 13, 8).
L'opera santa di Dio Creatore
Vorrei attirare la vostra attenzione sulla parola “santo”, che da secoli risuona nella nostra Chiesa in ciascuna celebrazione eucaristica. Il SANCTUS è il principale inno di adorazione della nostra liturgia ; è il cantico del cerimoniale celeste. La prima parte dell’inno viene dal profeta Isaia che ha sentito i Serafini dire per ben tre volte: “L’uno all’altro gridavano dicendo: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti; tutta la terra è piena della sua gloria” (Is 6, 3). La seconda viene dall’acclamazione della folla che agitava palme all’ingresso di Gesù a Gerusalemme, nella vigilia della passione : « La folla che andava innanzi e quella che veniva dietro gridavano: « Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli! » (Mt 21, 9).
Avrete probabilmente notato che, in particolare nel primo testo, il riferimento alla santità di Dio non si sussurra come si potrebbe addire alla maestosità di una corte divina. Si grida a squarciagola, come un tuono che si ripercuote fino ai confini dell’universo e nel profondo dei cuori. Questa santità è contagiosa e imperiosa. In un primo tempo, ha dettato al profeta Isaia una presa di coscienza della sua natura peccabile : “Ohimè, sono perduto, poiché sono un uomo dalle labbra impure” (Is 6, 5). Ma immediatamente dopo questa confessione, un formidabile processo di conversione si opera in lui. Quando la voce di Dio tre volte santo si fa sentire per invitarlo, nonostante tutto, a servirLo nel compimento di un’esigente missione profetica, egli accoglie la sfida e risponde : “Eccomi, manda me!” (Is 6, 8). In che modo, come Isaia, siamo interpellati, chiamati, nella nostra vita cristiana e come membri di un Istituto Secolare, dalla santità di Dio ? Quale legame possiamo stabilire tra la santità di Dio e la nostra missione che consiste nel vivere in modo santo in questo mondo, in qualunque tempo e in qualunque luogo?
La chiamata di Dio alla vita
Durante la nostra vita, ciascuno e ciascuna di noi siamo invitati a rispondere a diverse chiamate, a cominciare dalla più fondamentale, quella del Creatore ad entrare nel mondo dei vivi : “ Dio creò gli uomini secondo la sua immagine; a immagine di Dio li creò; maschi e femmine li creò.” (Gn 1, 26-27). Dal momento stesso del nostro concepimento e della nostra nascita, siamo chiamati da Dio a far parte della nobile moltitudine di quegli esseri che, da milioni di anni, popolano la terra e le conferiscono il suo carattere più prestigioso, ossia l’umanità.
L’ingresso in un mondo creato da Dio perché l’uomo vi realizzi il suo destino porta l’impronta indelebile del suo Creatore : " Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco che era molto buono." (Gn 1, 31). Come membri di un Istituto Secolare, abbiamo a cuore di riconoscere la santità di questo mondo creato da Dio e di diventare dei modelli per la realizzazione del suo disegno per l’umanità. In questa dolce città di Assisi, quale modello migliore possiamo evocare oggi, se non il più illustre dei suoi figli, una delle figure più simpatiche dell’agiografia cristiana, quello che chiamiamo fraternamente Francesco, quel giovane, sedotto da Gesù Cristo e dal suo Vangelo ? Ne riparlerò più avanti. Ecco un uomo che ha percepito con una sorprendente sensibilità il carattere sacro della natura creata da Dio, e che l’ha cantato con accenti poetici che testimoniano la sua profonda fede: “Lodato sii mio Signore, insieme a tutte le creature specialmente il fratello sole...” e che declinano tutti gli elementi del Creato.
Non è forse così che dovremmo riconoscere la bellezza di cui il Creatore ha dotato la sua opera, che ha fatto santa, tutto ciò che è visibile e tutto ciò che è invisibile, arricchendo in questo modo la nostra vita con la gioia di farne parte e dicendo con il salmista "I cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annunzia l’opera delle sue mani" (Sal 19, 2) ? L'influenza di Francesco ha attraversato i secoli, i continenti e i mari. Ha prestato il suo nome a molte generazioni di cristiani, tra cui il mio predecessore, il Beato François de Laval, primo vescovo di Québec.
Lungi da me l’idea di suggerire l’immagine di una terra idilliaca, senza pecche e senza difetti, una specie di paradiso terrestre come lo descrivono alcuni autori del Cinquecento, dopo essersi avventurati, peraltro spesso per puro caso, nel Nuovo Mondo.
Siamo ben lungi dall’immaginarci il mondo creato da Dio come un paradiso, anche perduto, e gli umani che lo abitano come angeli, che, ahimé, ci sembrano talvolta decaduti. La storia recente dell’umanità ha dolorosamente messo in evidenza alcuni tratti particolarmente violenti del comportamento di certi nostri contemporanei. I conflitti continuano a causare devastazioni in molti luoghi del mondo. Assistiamo, stupefatti ed impotenti, al rapido degrado del nostro pianeta, contaminato da gas a effetto serra e da molteplici materie inquinanti. I bollettini di informazione ci trasmettono di continuo immagini di massacri di esseri umani, di cataclismi che annientano con una sola onda o violenti scosse telluriche migliaia di persone, la cui unica colpa era di trovarsi in quel luogo in quel preciso istante. È questa la terra che il Creatore, nella sua infinita santità, ha lasciato in eredità agli umani affinché vi si moltiplichino e la sottomettano? Per vari motivi, affermo che è nostro dovere superare gli ostacoli della vita e percepire dappertutto la bella opera di Dio. Ed eccone il motivo principale.
Il capolavoro della creazione: il Verbo di Dio dato al mondo
Dio ha perfezionato la sua opera di creazione dando al mondo il più santo dei suoi tesori, suo stesso Figlio : “E il Verbo si fece carne e dimorò tra noi e abbiamo visto la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.” (Gv 1, 14). Sin dall’inizio della sua vita pubblica, al momento del battesimo nel Giordano, Gesù di Nazaret viene designato dal Padre come “ ... il Figlio mio diletto; in te mi sono compiaciuto” (Mc 1, 11). Nello stesso racconto evangelico, questa volta in occasione della Trasfigurazione di Gesù, la voce di Dio invita i discepoli a prenderlo come modello : “Questi è mio Figlio, l’eletto, ascoltatelo!” (Lc 9, 35) Ecco quindi stabilita la supremazia di Cristo e confermato il ruolo che sta per svolgere per la salvezza di tutta l’umanità e per il compimento del progetto di santificazione di tutte le persone che, nel futuro del mondo, vorranno seguire le sue tracce.
Gesù Cristo, il modello perfetto di santità per tutti i tempi
Quale modello migliore possiamo rievocare per essere sicuri di vivere secondo il piano di Dio per l’umanità e per trasformare il mondo con Lui, se non Gesù stesso! Cristo Gesù ha tracciato il cammino affinché diventassimo a nostra volta sale della terra e luce del mondo, e diventassimo nuovi modelli di santità oggi, in questo nostro mondo.
Il Signore Gesù ha amato sinceramente la terra e tutti i suoi abitanti, e ne ha riconosciuto il carattere sacro. Molte delle parabole che usa per annunciare il suo messaggio si riferiscono ad una natura che trova bella, che abita di giorno e spesso di notte. Parla del fico, dei gigli dei campi, del grano raccolto il giorno stesso dello Shabbat, degli uccelli, dell’acqua dei laghi e dei fiumi, della terra, del vento e del cielo, del vino delle nozze a Cana e del pane della Cena. Tutti questi elementi testimoniano una stretta familiarità con l’ambiente nel quale vive.
Ma esprime la sua sollecitudine soprattutto verso il suo popolo, verso le donne, i bambini e gli uomini del suo tempo, nei confronti dei quali dimostra un profondo interesse, un commovente affetto, sincere effusioni di simpatia e di pietà. Constata quanto il male e la malattia distruggono i corpi e le menti e si adopera per sollevarli e guarirli. Lungi dal fuggire le problematiche socio-politiche o religiose del suo tempo, propone delle risposte che dimostrano il suo attaccamento incondizionato all’Amore del Padre, che è il fondamento di tutta la sua azione, di tutte le sue decisioni e di tutta la sua vita. Questa santità farà un’impressione tale sui suoi contemporanei che infiammerà il cuore di molti discepoli. Come Cristo ha insegnato loro, si diffonderanno nel mondo conosciuto e la loro azione produrrà effetti fino a noi: “Allora Gesù disse loro: Ogni potere mi è stato dato in cielo e in terra. Andate dunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho ordinato. Ed ecco: io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo.” (Mt 28, 18-20)
Il messaggio evangelico che ispira la vita dei cristiani deriva in linea diretta dalla persona di Cristo « ... la via e la verità e la vita» (Gv 14, 6). L'esistenza cristiana comporta un significato che ci guida nell’insieme del nostro percorso di vita, nelle nostre relazioni umane, nelle nostre attività professionali e sociali. Tentiamo allora di imitare i valori più fondamentali che Cristo ha ritenuto conformi con la volontà del Padre : “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore.” (Gv 15, 10). Sono infatti questi i valori che hanno suscitato l’ammirazione delle persone che hanno avuto il privilegio di conoscerlo o di incontrarlo, e che hanno segnato quelle che hanno accolto il suo insegnamento. Vediamo ora più da vicino alcuni di questi valori fondamentali privilegiati da Gesù. Prendiamo il tempo di constatare come sono atti a promuovere l’impegno dei cristiani, in particolar modo noi, membri di Istituti Secolari in cammino verso la santità nel cuore del mondo.
Il riconoscimento della dignità della persona umana è uno dei valori più fondamentali auspicati da Gesù Cristo nella sua vita e nel suo insegnamento. Diversi racconti del Vangelo descrivono il Signore che supera alcuni tabù sociali del suo tempo. Ha osato mostrare compassione verso persone che godevano di scarsissima considerazione nella società, come ad esempio i bambini o certe categorie di infermi come i lebbrosi, che venivano esclusi e disprezzati. Ha espresso una profonda pietà nei confronti dei malati che correvano da lui a migliaia per essere guariti da infermità spesso considerate vergognose. Uno degli atteggiamenti più audaci e innovatori per un uomo di quel tempo, è la sua posizione nei confronti delle donne, fossero esse prostitute, vedove, straniere o semplicemente carissime amiche. Ecco alcuni dei valori stimati da Gesù e che sono in grado di far nascere, per emulazione, nuovi modelli di santità perfettamente compatibili con il disegno di Dio per il nostro mondo. Come si fa ad arrivarci ?
Battezzati in Gesù Cristo, viviamo della sua vita e risplendiamo dell’ardore della nostra fede
A nostra volta, siamo chiamati a diventare testimoni della santità di Dio nella comunità credente che è la Chiesa di Gesù Cristo e nel mondo che, per missione, essa deve guidare e santificare. Il momento fondatore della nostra vocazione è il battesimo, che ci ricrea e ci conferisce la nostra identità insigne di figli di Dio per una vita nuova ed eterna. Quando abbiamo scelto di perfezionare la nostra vita battesimale entrando in un Istituto Secolare, era per rispondere meglio, di giorno in giorno, alla chiamata di Cristo a diventare santi e sante: “Ma, in conformità col Santo che vi chiamò, diventate santi anche voi in tutto il vostro comportamento, poiché sta scritto: Siate santi, poiché io sono santo.” (1 Pt 1, 15-16). Ecco la sfida che dobbiamo affrontare o la bella missione che dobbiamo compiere: vivere da santi nel nostro mondo alla continua ricerca di senso e assetato di verità, che sembra tanto restio ad ogni riferimento al sacro, tra l’altro alla religione, senza cedere all’effetto di osmosi che rischierebbe di coinvolgerci e di scoraggiarci, ma rimanendo centrati su Cristo.
Infatti né Gesù Cristo né la Scrittura ci danno una risposta facile ed immediata ai grandi problemi del nostro tempo. La nostra fede non dispone di ricette magiche per risolvere i grandi interrogativi esistenziali sull’origine del mondo e della vita, o su quello che si deve intendere per qualità della vita o dignità della morte. Si trova continuamente confrontata con i problemi etici legati alle ricerche biomediche, tecnologiche e alle mutazioni sociopolitiche ed economiche che rimodellano il mondo ad un ritmo vertiginoso. Essa non elimina i nostri timori di fronte al dispiegamento d’armi di distruzione di massa, né di fronte all’incertezza che può produrre uno sviluppo erratico della scienza e della tecnologia.
Viviamo in un mondo in pieno fermento. Sappiamo riconoscere i progressi positivi della scienza, della tecnologia e della medicina, ciò che valorizza le capacità umane ricevute dal Creatore. Siamo tuttavia chiamati, per via del nostro battesimo e della nostra condizione di discepoli di Cristo, a volgere uno sguardo critico di fronte a certe scelte di società che non contribuiscono affatto al progresso dell’umanità perché non rispettano la dignità dell’essere umano.
In un mondo secolarizzato e arcigno
Un rapido sguardo sulle grandi tendenze delle nostre società occidentali ci rimanda un’immagine che contrasta spesso con la nostra comprensione dei riferimenti più fondamentali del nostro codice di comportamento cristiano : edonismo, individualismo, mercantilismo, ingiustizia, persino disprezzo nei confronti del sacro e della religione, che danno luogo a comportamenti contrari all’ideale proposto dal Vangelo.
Con rammarico dobbiamo constatare una totale mancanza di cultura religiosa persino nelle persone di una generazione in cui la fede è stata più sistematicamente insegnata, ma in cui, per vari motivi, quelle persone non hanno incontrato personalmente Cristo. È quindi in questo campo che siamo invitati ad essere “una lucerna che faccia luce a tutti quelli che sono nella casa.” (Mt 5, 16).
Le parole rivolte dal Beato Papa Giovanni Paolo II ai partecipanti del Congresso Mondiale degli Istituti Secolari, nel 1980, sono tuttora valide per noi qui ad Assisi, oggi 24 luglio 2012. Il Santo Padre citava le parole del suo predecessore, Papa Paolo VI, ai Responsabili generali degli Istituti Secolari (25 agosto 1976) : “Se essi rimarranno fedeli alla loro vocazione particolare, gli istituti secolari diventeranno come “il laboratorio di esperienza” nel quale la Chiesa verifica le modalità concrete dei suoi rapporti con il mondo. È perciò che essi devono ascoltare, come rivolto soprattutto a loro, l’appello dell’esortazione apostolica “Evangelii Nuntiandi”: “Il loro compito... è la messa in opera di tutte le possibilità cristiane ed evangeliche nascoste, ma già presenti e attive nelle cose del mondo. Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica, del sociale, dell’economia, ma ugualmente della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, dei mass media (n. 70).” Ecco dunque il campo fertile, già delineato, dove intraprendere una nuova evangelizzazione! Vediamo brevemente come la nostra ricerca di modelli di santità potrà dare frutti in questo paesaggio nuovo nel quale siamo i lavoratori inviati alla vigna del Signore.
Ascoltiamo ancora ciò che il Beato Papa Giovanni Paolo II scriveva nella sua Esortazione Apostolica Christifideles Laici (30 dicembre 1988, N. 3) sull’atteggiamento che bisogna adottare di fronte al mondo in cui viviamo: “E' necessario, allora, guardare in faccia questo nostro mondo, con i suoi valori e problemi, le sue inquietudini e speranze, le sue conquiste e sconfitte: un mondo le cui situazioni economiche, sociali, politiche e culturali presentano problemi e difficoltà più gravi rispetto a quello descritto dal Concilio nella Costituzione pastorale Gaudium et spes. E' comunque questa la vigna, è questo il campo nel quale i fedeli laici sono chiamati a vivere la loro missione. Gesù li vuole, come tutti i suoi discepoli, sale della terra e luce del mondo.”
È così difficile rispondere all’invito di Cristo, la nostra via e il nostro modello, che ci invita a seguirlo “ ... affinché dove sono io siate anche voi.” (Gv 14, 3) ? Siamo qui nel cuore del dilemma che ci si pone davanti come discepoli desiderosi di compiere il nostro ideale di santità rimanendo fedeli al disegno di Dio sul mondo. Come agire in conformità con le nostre convinzioni nel mondo in cui viviamo ? Bisogna disprezzarlo e ritirarci, ignorarlo e vivere in isolamento, o piuttosto amarlo e credere che lo Spirito lo abita e lo santifica? Propongo una visione positiva della nostra appartenenza al mondo. Dio l’ha creato per noi : “Dio è innanzi tutto nostro Padre in quanto è nostro Creatore. Poiché Egli ci ha creato, noi apparteniamo a Lui: l'essere come tale viene da Lui e perciò è buono, è partecipazione di Dio.” (Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, 2007). Siamo ora invitati a partecipare con Lui alla sua ricreazione con la forza dello Spirito di Gesù risorto !
La voce del Signore si trasmette attraverso gli avvenimenti della Chiesa e dell’umanità, come ricordano i Padri del Concilio Vaticano II : “Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l'universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio. La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell'uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane.”(Costituzione pastorale Gaudium et Spes, 11).
I racconti della Creazione ci dicono che Dio si è meravigliato di fronte alla sua opera e l’ha trovata “buona”. Dobbiamo essere capaci di fare altrettanto. Tuttavia, il Signore ha saputo anche vedere la sofferenza e il male che sono entrati nel mondo a causa del peccato. Questo mondo in cui viviamo, spesso inquietante e minaccioso, ci costringe ad affidarci ai lumi dello Spirito di Dio e agli insegnamenti del Magistero della sua Chiesa. Dobbiamo vigilare, lavorare nei limiti dei nostri mezzi per modificare alcune problematiche di nostra competenza e confidare, contro ogni speranza, nella gioia e nella solidarietà umana. Sono queste le piste che i battezzati, e in particolare le donne e gli uomini membri d’Istituti Secolari, possono esplorare per delineare dei modelli di santità nei loro rispettivi impegni. Non è certo un compito facile, ma è una sfida molto interessante !
Un mondo in attesa d’amore, di fede e di speranza
Come definire un modello di santità in un mondo che fa del piacere lo scopo della vita e che cerca una soddisfazione massima al costo di sforzi minimi? Questa è la definizione dell’edonismo e dell’individualismo, ad esso vicino, ossia due correnti caratteristiche della società attuale. È vero che questa tendenza alla facilità e al ripiego su se stessi si osserva nel comportamento di gruppi sociali e di individui sempre più avidi di ottenere maggiori benefici, a discapito delle responsabilità che dovrebbero accompagnarsi ad essi. Ma è anche vero che forze di generosità e di condivisioni notevoli operano nel mondo. Pensiamo alle lotte contro la povertà e l’analfabetismo, agli aiuti portati alle vittime di guerre e altre catastrofi dai Medici senza frontiere e da volontari generosi, alle migliaia di uomini e donne che, in nome della loro fede cristiana, militano a favore del rispetto della vita o dell’instaurazione della giustizia e della pace. Nel considerare queste molteplici manifestazioni di gratuità, di generosità e di altruismo, non posso non ammirare la messa in opera di quella che possiamo chiamare la Carta della santità cristiana, il magistrale discorso delle beatitudini: “ ... Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati... Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio." (Mt 5, 6-9) In questo mondo siamo chiamati a portare la Buona Novella attraverso una nuova evangelizzazione.
Chiamati a testimoniare l’amore di Dio attraverso una nuova evangelizzazione
Anche se il termine “nuova evangelizzazione” è ormai piuttosto diffuso e assimilato, è pur sempre un’espressione apparsa di recente nell’ambito della riflessione ecclesiale e pastorale, sicché il suo significato non è sempre chiaro e radicato. Il Beato Papa Giovanni Paolo II è stato il primo a parlare di nuova evangelizzazione. Ne ha fatto un punto chiave del suo Magistero: “Oggi si deve affrontare con coraggio una situazione che si fa sempre più varia e impegnativa, nel contesto della globalizzazione e del nuovo e mutevole intreccio di popoli e culture che la caratterizza. Ho tante volte ripetuto in questi anni l'appello della nuova evangelizzazione. Lo ribadisco ora, soprattutto per indicare che occorre riaccendere in noi lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall'ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste. Dobbiamo rivivere in noi il sentimento infuocato di Paolo, il quale esclamava: « Guai a me se non predicassi il Vangelo!" (1 Cor 9,16). (Novo Millenio Ineunte, N 40).
Sua Santità Benedetto XVI segue ora l’orientamento del suo predecessore, come mostrano la creazione del Consiglio Pontificio per la Nuova Evangelizzazione, il 12 ottobre 2010, e la convocazione del prossimo Sinodo dei Vescovi a Roma, dal 7 al 28 ottobre, il cui tema sarà “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”. Il Santo Padre ha dato precisazioni sulle sue intenzioni riguardo al Consiglio nei seguenti termini : “Facendomi dunque carico della preoccupazione dei miei venerati Predecessori, ritengo opportuno offrire delle risposte adeguate perché la Chiesa intera, lasciandosi rigenerare dalla forza dello Spirito Santo, si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione.” (Motu Proprio « Ubicumque et Semper », 21 settembre 2010).
La Chiesa e il mondo hanno bisogno di una nuova evangelizzazione, non di un nuovo Vangelo! Si tratta quindi di annunciare la Buona Novella in un modo rinnovato, avendo cura di concentrarsi sul cuore della fede che può sconvolgere le nostre vite, toccare e attrarre i cuori dei credenti e dei non credenti. Per noi, membri di vari Istituti Secolari, chiamati a partecipare a questo vasto cantiere, è importante avere in mente le condizioni ottimali della sua messa in opera, ossia l’esperienza profonda e personale dell’amore di Cristo e della sua salvezza. “Chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve annunciarlo".(Novo Millenio Ineunte, N 40). Nel caso contrario, ci si deve coraggiosamente chiedere : Se non ho voglia di annunciarlo, l’ho veramente incontrato?
Come veri credenti, e con il sostegno dello Spirito di Dio, siamo chiamati alla santità e invitati a testimoniare, con tutta la nostra vita, la bellezza dei valori evangelici. Questi devono trasparire in tutto quello che siamo e facciamo. L’evangelizzatore testimonia la sua esperienza personale e comunitaria dell’Amore di Dio, le meraviglie di Dio nella sua vita, e non quello che ha imparato su Dio. “Questa infatti è la volontà di Dio : la vostra santificazione” scrive l’apostolo Paolo ai Tessalonicesi (1 Ts 4, 3).
Alcuni grandi testimoni della presenza attiva di Dio
Ammiriamo grandi testimoni la cui vita e opera hanno toccato e trasformato l’umanità. Laici, come Jean Vanier, Madeleine Delbrêl, Chiara Lubich, Madre Teresa di Calcutta, e tanti altri di cui potremmo parlare. Sono veri modelli il cui lavoro e la cui influenza testimoniano la potenza dello Spirito nel nostro tempo. Questi comportamenti devono ispirarci nel nostro cammino di vita e nella nostra ricerca della santità. Papa Paolo VI diceva che “L'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni.” (Evangelii Nuntiandi, N 41).
Come voi, conosco personalmente delle persone che, nella loro vita, esprimono la stessa sete di perfezione e d’imitazione di Cristo, e che operano come fari nell’universo nebuloso della vita di alcuni loro contemporanei. Appartengo all’Istituto Secolare Pie X, fondato nel 1939 da Padre Henri Roy. Era solito dire : “L’unico difetto di una vita è quello di non diventare santo”. Le persone che lo hanno conosciuto lo hanno definito « ossessionato dalla santità » (Rivista Je Crois, 1985). È vero che quest’espressione può sembrare dispregiativa, ma vi assicuro che non è così. Come Frate Francesco, come tutti i santi e le sante che hanno costellato la vita della Chiesa e segnato la loro epoca, Padre Roy è stato un vero testimone dell’Amore e della sollecitudine di Dio nel mondo. È stato un ardente artefice della carità di Cristo nei confronti di tutti gli esseri umani, in particolare i poveri, i più giovani e i più bisognosi. Come diceva il profeta Geremia, questi uomini e queste donne sono “pazzi di Dio”. “Mi hai sedotto, Signore, e ho ceduto alla seduzione” (Ger 20, 7).
Un modello ispirante per il nostro tempo
In certi momenti della storia, il destino sembra esitare tra conflitto ed infelicità, come se aspettasse la venuta di qualcuno ma che nessuno venisse. Verso la fine del XII secolo, in questa città di Assisi, un giovane riuscì quasi a far trionfare l’ideale. La sua vita si svolge in due tempi, come se dovesse illustrare ciò che vi è di triste e di gioioso nella vita, di piccolo e di grande, di mondano e di spirituale, di ozioso e di sublime, in uno scontro esistenziale di cui San Paolo riassume a modo suo i parametri, una vita in cui “la carne infatti ha desideri contro lo Spirito, lo Spirito a sua volta contro la carne” (Gal 5, 16).
Cito l’esempio di San Francesco non solo perché la sua santità è stata ufficialmente riconosciuta dalla Chiesa, ma soprattutto perché percepisco nel suo cammino un modello in grado d’ispirare la nostra ricerca di una vita santa e piena. Francesco nasce in un periodo in cui tutti gli eccessi della vita sono cosa di ordinaria amministrazione. L’Antichità pagana non è ancora dimenticata e i suoi costumi dissoluti non sono stati cancellati dal messaggio cristiano. Il Paese, come tutti gli altri paesi europei, è dilaniato da guerre intestine e da lotte per il potere. Il divario tra i ricchi e i poveri crea disuguaglianze scandalose che generano ignoranza, malattia, carestia. La stessa Chiesa vacilla sulle sue fondamenta ; si è allontanata dalla fedeltà al suo Maestro e la sua missione ne risulta snaturata. Un bel giorno, Francesco sente la voce di Cristo che gli dice: “Francesco, va' e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina”.
Francesco cresce in una famiglia borghese e la sua giovinezza è colma di tutti i piaceri e di tutta la spensieratezza che gli procurano la ricchezza, la notorietà e un carattere gioviale che desta l’ammirazione e la simpatia di tutti. La prima parte della sua vita si conclude in un’esperienza spirituale inconsueta che comincia nella chiesetta di San Damiano. Come Blaise Pascal che, nel 1654, conoscerà un’esperienza simile che chiamerà “notte di fuoco”, Francesco diventa subito e dolorosamente consapevole della sua condizione di peccatore. L’immagine che ha di se stesso gli diventa insopportabile in confronto a quello che percepisce della persona di Cristo. Preso dai rimorsi ma soprattutto pervaso da un amore incondizionato per Colui che chiama ormai Amore, s’impegna a diventare un altro Cristo. Conoscerà a sua volta l’esperienza vissuta prima di lui da San Paolo: “Sono stato crocifisso insieme a Cristo; vivo, però non più io, ma vive in me Cristo.” (Gal 2, 19-20)
Ormai Francesco è un uomo nuovo. Conosce bene la società e il mondo in cui vive. Predica in termini semplici e comprensibili la conversione, il rinnovamento, il ritorno ad una fede non più basata sulla conoscenza dei dogmi, l’attuazione di precetti e la recitazione automatica di preghiere, ma su una vera comunione personale d’amore con Cristo. La sua predicazione non è moralizzante ; non ha nulla di dogmatico né di autoritario. Gli basta vivere come Gesù, nella gioia, la condivisione, la compassione e la santa povertà perché la sua testimonianza diventi il suo linguaggio più eloquente. Lui che non ha fatto studi teologici, ma che brucia dalla voglia di condividere la gioia che gli dà il grande amore che prova per Dio, si mette in cammino e diffonde la Buona Novella con parole sincere che toccano i cuori. Con una vita di obbedienza e di povertà, elevata al rango di virtù, purché si identifichi con quella di Cristo, Francesco diventa l’artefice di una nuova evangelizzazione nel suo mondo. La sua influenza modificherà il corso della storia della Chiesa e quella del mondo intero. Il suo messaggio è un appello pressante agli uomini e alle donne di tutti i tempi a convertirsi, un invito a volgersi in modo deciso verso Cristo, nostro modello perfetto affinché ci ispiri gli atteggiamenti che sono i suoi nella nostra vita di tutti i giorni.
Ora tocca a noi affrontare la sfida e servire da modelli nella preghiera e nell’accoglienza della Parola di Dio
Cari fratelli e sorelle degli Istituti Secolari, che operate nel cuore del mondo con la vostra professione e il vostro impegno in seno alla Chiesa, in diversi ambiti della vita umana e pastorale, insieme crediamo sinceramente che lo Spirito Santo ci guida nella nostra ricerca di una vita di pienezza, quello che chiamiamo la nostra aspirazione alla santità. E ci affidiamo alla sua azione benefica e rassicurante affinché sia indefettibilmente la nostra guida verso la santità, così come dice il profeta Ezechiele : “Metterò il mio spirito dentro di voi, farò sì che osserviate i miei decreti e seguiate le mie norme” (Ez 36, 27). Profondamente radicati in questo mondo di cui cerchiamo di scoprire le bellezze e le grandezze, sappiamo che è santo perché viene da Dio ed è abitato da Lui. Constatiamo che il dono più sublime del Creatore agli umani è suo Figlio, Nostro Signore Gesù Cristo. Da Lui e in Lui, riconosciamo la Via e la Verità. Siamo sicuri di poter contare sulla forza del suo Spirito per superare pacificamente e positivamente tutti gli ostacoli che troveremo sul nostro cammino: “Imitate Dio, come figli diletti, e camminate nell’amore sull’esempio del Cristo che vi ha amato e ha offerto se stesso per noi, oblazione e sacrificio di soave odore a Dio” (Ef 5, 1).
Non è una sfida semplice da affrontare. È stato difficile per Gesù superare le insidie, i tradimenti dei suoi amici, l’incomprensione nei confronti del suo messaggio, le sofferenze della sua passione. Ma ha vinto l’avversità con la preghiera. In ogni momento, giorno e notte, e in particolar modo quando il peso della sua missione diventava difficile da portare, si rivolgeva al Padre e pregava. La preghiera era nel cuore della vita di Gesù. Era un dialogo costante con Colui che lo aveva inviato. Era la consolazione nella notte del dubbio, il cibo nel deserto e il conforto nella prova. La preghiera era lo sfogo nei momenti di intense gioie e di grandi emozioni, la fonte alla quale attingeva per compiere i miracoli della guarigione delle anime e dei corpi. Gesù era preghiera, compiendo in ogni cosa la volontà del Padre, facendo di noi i suoi figli. “Poiché siete figli, Dio inviò lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, il quale grida : Abbà, Padre!” (Ga 4, 4-6).
Quando gli apostoli chiedono al Signore di insegnare loro a pregare (cfr. Lc 11, 20), Egli insegna loro a dire : « Padre nostro » con parole che escono dal cuore, la preghiera che Lui stesso ha rivolto a Dio e alla quale associa ormai tutti i membri della sua famiglia. Cari amici, ecco lo strumento con il quale possiamo diventare dei modelli di santità. La preghiera è il grido e il soffio dello Spirito in noi, che ci spinge verso i nostri fratelli e sorelle ovunque siano. Un altro elemento essenziale nella conquista della santità è il posto che occupa la Parola di Dio nella nostra vita quotidiana. I profeti disponevano di due risorse per vivere la loro missione: la preghiera e la Parola di Dio. Non può essere diversamente per noi. Accogliere, meditare, vivere della Parola di Dio è la via sicura per fare di noi dei santi e delle sante, affinché la nostra vita sia adeguata al piano di Dio e dia molti frutti. Infatti, la Parola è Qualcuno, è il Verbo fatto carne.
Nella vigna del Signore, qui e ora
Operiamo per far sì che la bellezza risplenda dappertutto, che testimoni la bontà, la grandezza, il genio e l’Amore del Creatore. Là dove siamo, nelle nostre istituzioni d’insegnamento, nelle nostre famiglie, nei nostri villaggi e nelle nostre città dove curiamo la crescita di una gioventù felice e di cittadini impegnati in cause nobili e durature ; nelle fabbriche e i laboratori dove cerchiamo di migliorare le condizioni di vita dei nostri concittadini ; negli ospedali, le cliniche, le case per anziani dove solleviamo la malattia, la sofferenza dell’abbandono e della solitudine ; nelle associazioni dove creiamo condizioni favorevoli all’instaurazione della pace, della giustizia e della felicità; nelle nostre comunità cristiane dove ci adoperiamo per ridire il messaggio d’amore e di riconciliazione ispirato al nostro grande amore per Cristo, ecco il terreno in cui seminiamo quotidianamente i semi di una santità da cui emergono ed emergeranno nuovi modelli. Lo facciamo con gli occhi e il cuore volti verso Cristo di cui siamo i testimoni attivi in tutto ciò che realizziamo.
Vorrei citare le parole rivolte dal Cardinale Etchegaray ai sacerdoti della sua diocesi di Marsiglia in occasione della celebrazione del giovedì santo nel 1978. Esse sintetizzano in modo pertinente la nostra preoccupazione di diventare dei modelli di santità nel nostro tempo : “Se rallenti il passo, i credenti si fermano ; se t’indebolisci, barcollano ; se ti siedi, si coricano ; se dubiti, si scoraggiano ; se critichi, si distruggono ; se cammini davanti a loro, ti superano; se dai loro la mano, ti daranno persino la loro pelle; se preghi, diventeranno santi” (Testo attribuito a Michel Menu, indirizzato agli Scout di Francia).
Ma la parola finale appartiene a Gesù, come un appello urgente, una sfida entusiasmante, un invito a partecipare con gioia e coraggio alla sua missione : « Al vedere le folle affrante e abbandonate a sé come pecore senza pastore, fu preso da pietà. Allora disse ai suoi discepoli : « La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate perciò il padrone della messe che mandi operai alla sua messe » (Mt 9, 36-38). A noi rimane solo da rispondere, come Isaia : “Eccomi, manda me!” (Is 6, 8).
In tutto e per tutti al seguito di Gesù
Con Cristo, andremo sui sentieri della storia. Quelli tortuosi e battuti, quelli che sembrano senza via di uscita, quelli che sembrano meno ingombrati e meno minacciosi, quelli che aprono su vasti orizzonti promettenti. Andremo incontro ai nostri fratelli e sorelle in umanità che frequentano quei cammini, ovunque si trovino. Daremo loro una mano caritatevole, offriremo loro da bere e da mangiare per il loro corpo e il loro spirito. Condivideremo con loro i nostri vestiti, i nostri beni, i nostri talenti, il nostro tempo. Consoleremo gli afflitti e asciugheremo le loro lacrime ; visiteremo i prigionieri e diremo loro parole che riscalderanno il loro cuore. Contribuiremo con i nostri sforzi ad edificare la pace e la riconciliazione. Denunceremo le ingustizie e le disuguaglianze, staremo dalla parte dei poveri e dei diseredati. Lavoreremo per un mondo migliore, più bello, più prospero, più equo ed affermeremo che è quello che vuole Dio nostro Padre. Su quelle strade, annunceremo dappertutto che Dio è Amore, che è Giusto e Buono, che ogni persona è unica, che conta per Lui e che l’ama. Tenteremo di convincere ogni persona che, malgrado le apparenze e malgrado quello che crede, deve solo lasciarsi amare poiché Lui attende solo di amarla, di essere amato e di entrare nell’eterna Alleanza.
Sulle tracce di Gesù che ha camminato sulle nostre strade, seminandovi i semi di una vita umana felice e amorevole, ma ancora di più, una vita che si realizzerà pienamente nella casa del Padre, ci affidiamo al suo Spirito affinché ci guidi, ci sostenga nei nostri sforzi e ci accompagni. Allora, come ha promesso, lo sentiremo dire : « Venite, benedetti dal Padre mio, prendete possesso del regno preparato per voi sin dall’origine del mondo. Poiché: ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere, ero pellegrino e mi ospitaste, nudo e mi copriste, infermo e mi visitaste, ero in carcere e veniste a trovarmi. ... In verità vi dico : tutto quello che avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me » (Mt 25, 34-40). In quel momento capiremo di aver percorso i cammini della santità in un processo amorevole di fedeltà a Dio nel mondo in cui ci ha creati.
Portiamo avanti insieme, con audacia, con coraggio e nella gioia la missione affidataci. Il Signore ci chiama, non perdiamo tempo, è sempre con noi.
N. CMIS: Il testo originale è in francese
Nuovi linguaggi e una nuevo lingua per la Chiesa
Ivan Netto
Che cosa sono i nuovi media?
“Nuovi Media” è un termine generico utilizzato per molte, diverse forme di comunicazione elettronica che sono rese possibili dalla tecnologia informatica. Il termine viene usato in contrasto con i “vecchi” media quali quotidiani e periodici cartacei che forniscono rappresentazioni statiche di testi e grafica.
Fra i nuovi media possiamo citare: siti web, chat room, e-mail, community online, pubblicità sul web, DVD e CD-ROM, ambienti in realtà virtuale, telefonia via internet (integrazione di dati digitali con il telefono), podcast, feed RSS, social network, messaggi SMS, blog, mondi virtuali, internet e pc in mobilità ecc.
Secondo alcuni osservatori, la Chiesa Cattolica, un tempo leader nelle comunicazioni, ha ora perso terreno nel mondo dei nuovi media. Tali osservatori affermano che l’utilizzo dei nuovi media da parte della Chiesa Cattolica recherebbe un grande vantaggio alla sua attività catechetica, evangelica e ai suoi sforzi di comunicazione in generale, fornendo ai membri della Chiesa sia a livello nazionale, che all’estero nonché al resto del mondo, risorse economiche di facile accesso e che contribuiscono a creare una comunità.
Qual è il contributo offerto dai nuovi media?
Connettono le persone tramite informazioni e servizi. Ad esempio, i pazienti affetti da AIDS possono connettersi con le proprie famiglie, gli amici, altri malati di AIDS e a coloro che li assistono. I nuovi media promuovono la collaborazione fra diverse persone. Ad esempio, aiutano le organizzazioni che operano nel campo dell’AIDS a lavorare insieme per i propri pazienti. Contribuiscono a creare nuovi contenuti, servizi, comunità e canali di comunicazione che aiutano a fornire informazioni e servizi. Ad esempio, le organizzazioni attive nel campo dell’AIDS possono creare i propri siti web e blog.
Quali sono le reazioni ai nuovi media?
Il Santo Padre Benedetto XVI ha sottolineato che i nuovi media non dovrebbero suscitare né un facile entusiasmo, né d’altro canto, scetticismo. Ha tuttavia affermato che la Chiesa dovrebbe imparare a utilizzare i nuovi media in modo efficace.
Come qualsiasi lingua, ha detto il Papa, i nuovi media presentano specifici modi per esprimere pensieri e organizzare le idee. Tutte le lingue plasmano il modo in cui si esprimono i pensieri e i social media fanno emergere capacità che sono più intuitive ed emotive che analitiche. Inoltre, tendono verso una diversa organizzazione logica delle nostre idee e rapporti con la realtà.
Questa nuova lingua presenta degli svantaggi, ha aggiunto il Papa, in particolare per coloro che utilizzano i social media senza capire come funzionano. I rischi connessi a questo mezzo di comunicazione sono numerosi, quali la perdita di profondità interiore, superficialità nei rapporti, una deriva verso l’emozionalismo, il prevalere dell’opinione più convincente a scapito del desiderio di verità.
Il Papa raccomanda che il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali aiuti coloro che occupano posti di responsabilità nella Chiesa a capire, interpretare e parlare la “nuova lingua” dei mass media nella loro funzione pastorale.
Cosa insegna la Chiesa Cattolica sui nuovi media?
La Chiesa ha fornito molti insegnamenti in materia di evangelizzazione, media e nuovi media. Si spera che presto ne seguirà un aggiornamento.
Il primo insegnamento in materia è stato l’Apostolicam Actuositatem, il decreto del Concilio Vaticano II sull’Apostolato dei laici nel 1965, seguito a distanza di dieci anni, dalla Evangelii Nuntiandi, entrambi promulgati da Papa Paolo VI. Questi due documenti fungono da base per capire la visione della Chiesa in materia di evangelizzazione, in particolare per quanto riguarda il laicato. Poi, è seguita la lettera apostolica di Papa Giovanni Paolo II, “Il rapido sviluppo” nel 2005 e l’enciclica di Papa Benedetto XVI “Caritas in Veritate” nel 2009. Questi due documenti contribuiscono alla comprensione degli insegnamenti della Chiesa in materia di comunicazione e media. Infine, un recente documento, “Nuove tecnologie, nuove relazioni” è stato scritto da Papa Benedetto XVI sui nuovi media e le relative conseguenze sui rapporti umani.
Nell’Apostolicam Actuositatem, il Concilio incoraggia i laici a essere più diligenti nel fare il possibile per spiegare, difendere e applicare diligentemente i principi cristiani ai problemi della nostra era, in linea con il pensiero della Chiesa. Il documento così sottolinea che tutti i cristiani hanno ricevuto la missione di diffondere il messaggio divino di salvezza e di farlo abbracciare a tutti gli uomini del mondo. Al fine di realizzare ciò, dovrebbero ricorrere alla testimonianza personale e alla proclamazione del vangelo nella loro vita quotidiana a tutti laici che vivono accanto a loro. I documenti sottolineano che l’evangelizzazione è un processo ricco e personale ed è il dovere di ogni cristiano. Il Concilio chiarisce inoltre che l’evangelizzazione non dovrebbe essere solo il lavoro personale di individui, ma anche delle comunità. Tutto dovrebbe testimoniare e proclamare il vangelo.
Papa Paolo VI, nella Evangelii Nuntiandi, insegna che l’evangelizzazione è di fatto una grazia e vocazione propria della Chiesa e rappresenta la sua più profonda identità. La Chiesa esiste per evangelizzare. Il Papa rileva che ciò che è importante è evangelizzare la cultura e le culture umane, non semplicemente in modo superficiale, ma arrivando fino alle radici più profonde. Il Papa si sofferma in particolare su due aspetti. Primo, l’evangelizzazione deve indurre un cambiamento alle radici di una cultura, laddove si formano i valori. Secondo, il Papa sostiene che la forma d’incontro a tu per tu sia molto importante e sia a imitazione degli incontri di Gesù stesso con i vari personaggi dei vangeli, quali la donna samaritana.
Nel documento “Il rapido sviluppo”, Giovanni Paolo II insegna che nei mezzi di comunicazione, la Chiesa trova un prezioso aiuto per diffondere il Vangelo e i valori religiosi, per promuovere il dialogo, la cooperazione ecumenica e interreligiosa e anche per difendere quei solidi principi che sono indispensabili per costruire una società rispettosa della dignità della persona umana e attenta al bene comune. La Chiesa vede i media come strumenti che devono essere utilizzati per soddisfare la sua poliedrica missione nel mondo che è dettata da Dio. Il Papa aggiunge che bisogna fare tutto il possibile per portare a termine questa missione e osserva che i media possono rendere i legami di comunione tra le diverse comunità ecclesiastiche più efficaci. Inoltre, nota che le moderne tecnologie aumentano in misura considerevole la velocità, la quantità e l’accessibilità della comunicazione. Accenna altresì ad alcuni “difetti” nei mezzi di comunicazione, in particolare il fatto che non favoriscono il delicato scambio che si svolge fra menti e cuori. Questo tipo di scambio dovrebbe caratterizzare qualsiasi comunicazione che si ponga al servizio della solidarietà e dell’amore.
Papa Benedetto XVI, in Caritas in Veritate, afferma che i mezzi di comunicazione e la tecnologia in generale esprimono la tensione interiore che spinge l’umanità a superare gradualmente le limitazioni materiali e riflettono un desiderio di trascendenza. La tecnologia è una risposta al comando di Dio di coltivare e custodire il giardino che Egli aveva affidato all’umanità (Gen. 2,15). La Chiesa non vede la tecnologia come buona o cattiva di per sé, ma piuttosto come l’espressione di una qualità umana donata da Dio che può essere utilizzata per il bene dell’umanità.
Papa Benedetto XVI in “Nuove tecnologie, nuove relazioni” offre alcune linee guida a coloro che utilizzano i nuovi media, sottolineando diversi modi in cui questi ultimi influenzano i rapporti umani. Inizia dicendo che la velocità con cui le tecnologie dei nuovi media si sviluppano e diffondono non dovrebbe sorprenderci, dato che i nuovi media rispondono a un fondamentale desiderio delle persone di comunicare e mettersi reciprocamente in contatto. Egli auspica che i nuovi media non consentano solo alle persone di mettersi in contatto, ma anche che questi contatti agevolino forme di cooperazione fra persone provenienti da contesti geografici e culturali diversi. Ciò, a sua volta, permette di approfondire la loro comune umanità.
Il 29 giugno 2011, Papa Benedetto XVI ha lanciato un nuovo sito web utilizzando un iPad, pronunciando queste parole: “Cari amici, ho appena lanciato il sito News.va. Sia lodato Gesù Cristo! Con le mie preghiere e benedizioni, Benedictus XVI”. Ciò ha portato migliaia di utenti a seguire l’account Twitter del Vaticano in lingua inglese.
Criticità
Papa Benedetto XVI, inoltre, tocca il tema del digital divide (divario digitale). Questo termine esprime il concetto che i nuovi mezzi di comunicazione sono di facile accesso per il ceto medio e alto, di cui ne esprimono i valori; tuttavia restano di difficile accesso e non sono rappresentativi delle classi più povere. Il Papa appoggia lo sforzo di assicurare che i vantaggi offerti dai nuovi media vengano messi a disposizione di tutti gli esseri umani e le comunità, in particolare quelle più svantaggiate e vulnerabili. Lancia un monito, cioè che sarebbe una tragedia se il continuo sviluppo dei nuovi media dovesse contribuire solo ad approfondire il divario che separa i poveri dalle nuove reti che si stanno sviluppando al servizio della socializzazione e informazione dell’umanità. Così, mentre la Chiesa sostiene l’avvicinamento dei popoli tramite i nuovi media, fa appello perché vi sia un movimento adeguato che rappresenti i poveri e gli emarginati tramite questi nuovi media.
Papa Benedetto XVI ha anche messo in guardia contro il fatto che le relazioni non dovrebbero essere l’unico aspetto su cui si concentrano i nuovi media, al contrario la qualità dei contenuti riveste altrettanta importanza. Il pontefice ha incoraggiato quanti operano nel settore dei nuovi media a promuovere una cultura del rispetto, dialogo e amicizia, all’interno della quale occorre rispettare la dignità della persona umana. Il dialogo dovrebbe avvenire nell’ambito di una vera ricerca della verità. Con i nuovi media, gli utenti potrebbero facilmente essere indotti a credere di essere consumatori in un mercato di infinite possibilità, in cui la scelta stessa diventa il bene, in cui la novità è più importante della bellezza e in cui l’esperienza soggettiva sostituisce la ricerca della verità. I nuovi media non dovrebbero distogliere chi li frequenta dalle relazioni con la famiglia, i vicini e i membri della comunità offline. Il papa ha anche lanciato il seguente monito: se il desiderio di connettività virtuale diventa eccessivo, potrebbe effettivamente finire per isolare gli individui dalla vera interazione sociale e al tempo stesso deteriorare i ritmi di riposo, silenzio e riflessione necessari a un sano sviluppo umano. La Chiesa sostiene la moderazione in tutti gli ambiti dell’interazione con i nuovi media. Il papa ha anche posto l’accento sul ruolo dei giovani nel rapporto della Chiesa con i nuovi media e l’evangelizzazione che è probabilmente più importante che mai.
Quali altre fonti cristiane stanno utilizzando i nuovi media?
I vantaggi dei benefici portati dai nuovi media sono stati segnalati dal marketing (secolare), nonché da fonti cattoliche e protestanti. Molte organizzazioni in seno alla Chiesa hanno iniziato a utilizzare i nuovi media e le relative tecnologie su vasta scala, conseguendo vari livelli di successo.
E che dire degli Istituti Secolari e dei nuovi media?
Gli Istituti Secolari hanno anch’essi ampiamente adottato i nuovi media. Dato che i membri degli Istituti Secolari vivono soli o in famiglia, diventa così possibile per loro connettersi ad altri membri via email, skype ecc. La CMIS (Conferenza Mondiale degli Istituti Secolari) ha un sito web che collega diverse conferenze di Istituti Secolari e Istituti Secolari. Altre conferenze di Istituti Secolari a livello continentale o nazionale sono pure disponibili sul web. Su Internet si trovano anche materiali sulla sensibilizzazione alla vocazione e relativi alla formazione.
Che cosa pensano i moderni ricercatori dei nuovi media?
I ricercatori James Katz e Ronald Rice hanno condotto ampie ricerche sulle conseguenze sociali dell’uso di Internet. Nel loro lavoro “Project Syntopia”, forniscono un resoconto della loro ricerca. In genere, il comportamento online delle persone riflette il loro comportamento quando sono offline, ossia non connesse a Internet. Non esistono prove scientifiche che possano essere addotte a sostegno del “paradosso sociale” secondo cui un massiccio uso di Internet causa un aumento dell’isolamento sociale. Al contrario, Katz e Rice concludono che l’uso di Internet è associato a “un’aumentata partecipazione alla comunità e alla politica, e a un considerevole aumento dell’interazione sociale sia online che offline”. Le loro conclusioni sono state confermate da numerosi altri studi.
Secondo le prove raccolte da Erik Qualman durante il 2009, i social media non solo registrano il più elevato numero di nuovi affiliati rispetto a qualsiasi altro mezzo di comunicazione del passato, ma la loro popolarità è destinata ad aumentare nel tempo. La radio ha impiegato 38 anni per arrivare a 50 milioni di utenti e la televisione 13 anni, Facebook, il noto sito di social media, ha aggiunto 100 milioni di nuovi utenti in meno di nove mesi, secondo le stime del ricercatore. Egli inoltre afferma che se Facebook fosse un paese sarebbe il quarto più grande al mondo. Wikipedia, la famosa enciclopedia online, in cui gli utenti creano e modificano i contenuti, ospita oltre 13 milioni di articoli, il 78 per cento dei quali è scritto in una lingua diversa dall’inglese.
Se poi consideriamo il punto di vista del marketing, i consumatori sono liberi di decidere a quanta e quale pubblicità desiderano esporsi. Possono scegliere quale programma televisivo guardare, quali pubblicità evitare e possono navigare su un sito web utilizzando un programma che impedisce alle pubblicità “pop-up” di apparire sullo schermo. I consumatori sono stanchi di ricevere messaggi pubblicitari. Questo crea una bella sfida per chi si occupa di marketing e vuole raggiungere i consumatori di oggi. Secondo Qualman, solo il 14% dei consumatori ha fiducia nelle pubblicità, mentre il 78% afferma di aver fiducia nelle raccomandazioni di altri consumatori. Questi ultimi hanno perso la fiducia in chi vende e dice loro cosa sia “il meglio”. Desiderano invece una vera interazione, con persone esattamente come loro. Nel 2008, il “Barometro della fiducia” di Edelman ha riscontrato che la voce più fidata su Internet era, secondo i consumatori, la voce di una “persona come me”.
I giovani e Internet
Internet svolge un ruolo importante nella vita dei giovani. È stato riscontrato che l’87% (21 milioni) dei giovani americani va oggi online. Gli sms, la messaggistica istantanea, le chat room e i siti web personali aumentano la velocità dell’interazione multipla e simultanea che pone molte sfide.
Impatto sulla sfera sociale. Comunicare tramite Internet aiuta ad ampliare la sfera sociale di un individuo. Oramai, la sfera sociale di una persona non è più geograficamente limitata, dato che esiste una presenza “virtuale” piuttosto che “fisica”. I giovani che abitano in luoghi distanti, che sono disabili oppure costretti a rimanere in casa per motivi di salute, potrebbero trovare nelle chat su Internet un’importante forma di comunicazione.
Tuttavia, secondo alcuni, questo potrebbe portare all’isolamento sociale. Inoltre, l’impatto sui rapporti con la famiglia suscita preoccupazione. Emergono ora nuove situazioni quali il cyberbullismo e lo stalking online, la cyber-pornografia, i fenomeni di hacking o il flaming, un messaggio offensivo pubblico o personale, in cui vengono usate aggressioni verbali. Altri pericoli includono il mostrare apertamente la violazione di gruppo delle regole, con fenomeni quali razzismo, sessismo e omofobia.
Impatto sulla sfera emotiva. Internet viene sempre più utilizzato come fonte essenziale per reperire informazioni di ogni genere: da nozioni sulle forme di abuso a materiali per l’auto-aiuto, consentendo ai giovani di esprimersi. Molti giovani consultano risorse quali siti o numeri per aiutare chi ha pensieri suicidi, gruppi di supporto, siti d’informazione medica e contatti con le relative organizzazioni. Questa interazione contribuisce a offrire sostegno, al di fuori dell’immediato ambiente famigliare, per i problemi emotivi che alcune persone si trovano ad affrontare .
Il rovescio della medaglia risiede nel fatto che molte risorse che riguardano la sfera emotiva possono essere dannose. Ci sono, ad esempio, molte società che promuovono il diritto a morire (le Hemlock Societies - letteralmente Società della Cicuta). Si trovano inoltre informazioni su come costruire bombe, auto mutilarsi, essere attivi sessualmente, assumere droghe e molte altre attività illecite e illegali.
La sicurezza informatica
È una questione importante per i giovani di oggi. È essenziale per i genitori e i loro figli essere consapevoli degli aspetti legati alla sicurezza informatica, al fine di non diventare inconsapevoli vittime di adescamenti o molestie sessuali, ad esempio. Gli insegnanti a scuola potrebbero integrare i programmi didattici con lezioni volte a spiegare concetti quali il plagio, copiare e altre forme di comunicazione non etica.
Lezioni online e i cyber helpers (aiutanti o tutori online)
Sono strumenti importanti per i giovani oggi. Si tratta di lezioni volte a commentare un messaggio istantaneo, SMS o email per capire il messaggio e chi lo ha inviato, discutere l’etichetta della rete (“netichetta”), capire qual è l’uso corretto del cyberspazio rivestono oggi una grande importanza. La comunicazione via Internet ha cambiato molti aspetti nella vita dei giovani, ad esempio la sfera privata, sociale, culturale, economica e intellettuale. Tuttavia, con una preparazione, guida e supervisione adeguate, c’è il potenziale perché Internet offra un’esperienza positiva e contribuisca a promuovere la crescita personale.
Teologia o tecnologia?
Papa Benedetto XVI, rivolgendosi ai membri della Commissione Teologica Internazionale, nel dicembre 2010, ha affermato che chiunque ami Dio è spinto a diventare, in un certo senso, un teologo. Ogni nostra attività dovrebbe essere strettamente legata al nostro rapporto con Dio. Il pontefice ha altresì affermato che la teologia non è teologia se non viene integrata nella vita e non rispecchia la riflessione della Chiesa nello spazio e nel tempo.
Gesù ha detto: Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità. (Mt 7, 22-3)
Potremmo continuare a parlare per ore di quanto i nuovi media possono aiutare la missione della Chiesa, ma ciò non produrrà nessun effetto se non si basa questo lavoro con i media sulla preghiera e la teologia. È una questione di primato della teologia sulla tecnologia!
Ora, come potrebbe la Chiesa sviluppare un fondamento teologico?
Il Santo Padre ritiene che i nostri insegnanti siano i Padri e i teologi di tutta la tradizione cristiana. Dobbiamo iniziare a riflettere sull’evangelizzazione in seno alla Chiesa a partire dai profeti, passando per Cristo fino ai santi. Dobbiamo quindi riflettere sui seguenti padri, dottori e nuove personalità mediatiche della Chiesa. Mi riferisco in particolare a: San Paolo Apostolo, San Francesco di Sales, Vescovo e dottore della Chiesa (1567-1622), il beato Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina (1884-1971), il servo di Dio Fulton J. Sheen, vescovo e personalità mediatica insignita di premi per la sua attività in televisione (1895-1979) e San Daniele Comboni, le cui parole sul lavoro missionario riecheggiano in questo mondo di nuovi media.
Dunque, da dove cominciamo?
I nuovi media hanno creato un nuovo ambiente per il pensiero umano, l’apprendimento e la comunicazione. Molti vedono questo fenomeno come ben più di una semplice rivoluzione mediatica, ma piuttosto come una rivoluzione della “lingua”. Le nuove tecnologie dei media hanno radicalmente cambiato il modo in cui gli esseri umani pensano e si esprimono. Ho provato a presentare un quadro e il linguaggio in cui le tecnologie emergenti dei nuovi media possono essere considerate, valutate e, se del caso, incoraggiate e utilizzate nella Chiesa. Ho raccolto il materiale per la mia presentazione dai documenti della Chiesa e dalla tesi di Santana Angela. La Chiesa dispone di “nuovi linguaggi” e deve considerare quale “nuova lingua” sia positiva per sé.
Riferimenti bibliografici:
Santana Angela M., New Media, New Evangelization: The Unique Benefits of New Media and Why the Catholic Church Should Engage Them. (Nuovi media, nuova evangelizzazione: i vantaggi unici dei nuovi media e perché la Chiesa Cattolica dovrebbe utilizzarli) St. Mary’s University San Antonio, Texas (Università di St. Mary, San Antonio, Texas).
Enciclica Caritas in Veritate del Sommo Pontefice Benedetto XVI ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate, ai fedeli laici e a tutti gli uomini di buona volontà sullo sviluppo umano integrale.
Decreto sull’Apostolato dei Laici. Apostolicam Actuositatem. Solennemente promulgato da sua Santità Papa Paolo VI, il 18 novembre, 1965.
Lettera Apostolica “Il rapido sviluppo”, del santo Padre Giovanni Paolo II, ai responsabili delle comunicazioni sociali.
Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI alla 43ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali. “Nuove tecnologie, nuove relazioni. Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia”. [Domenica, 24 Maggio 2009 ]
James Katz e Ronald Rice. Project Syntopia: Social consequences of Internet Use. (Progetto Syntopia: le conseguenze sociali dell’uso di Internet).
N. CMIS: Il testo originale è in inglese.
Come cambia la vocazione quando cambiano il mondo e noi stessi…
Piera Grignolo
Il tema che mi è stato affidato è quanto mai suggestivo e ricco di considerazioni. Mi pare che il termine “ cambiamento “ stia alla base del discorso per quanto riguarda la realtà socioculturale in cui siamo immersi e la nostra realtà personale: non credo riguardi la nostra VOCAZIONE laicale:
cambia il modo di vivere e di attualizzare i carismi, ma non cambia la sostanza, cioè una vita donata a Dio per i fratelli nella realtà temporale, nel mondo.
Non si tratta di cambiare mentalità, ma di acquisire “ una mentalità di cambiamento o del viaggiatore” (E. Leed - La mente del viaggiatore, Bologna 92) cioè la capacità di maturare un pensiero nomade, come è giusto che sia in un’epoca di mobilità e di cambiamento, dove tanto chi viaggia quanto chi rimane nel suo luogo vive comunque da “homo migrans”.
Si tratta di ripensare ad una nuova forma educativa dettata dal superamento del soggettivismo moderno - l’IO al centro - per aprirci all’insegna del volto dell’altro: ecco il cambiamento, apertura ad un umanesimo planetario, conviviale, interculturale.
È la novità del terzo millennio: riscoprire la realtà relazionale. Noi occidentali apparteniamo ad una tradizione filosofica e pedagogica molto ben radicata nel principio del “ conosci te stesso “, che sottende la convinzione che l’altro sia uguale a noi e, se non lo è, “ barbaro, infedele, comunque inferiore”. Ma cosa succede quando l’altro è diverso e io sono consapevole che non posso più considerarlo un barbaro o un pagano?
Il filosofo Italo Mancini in - Tornino i volti – scrive “ ……nel terzo millennio il termine comprensivo di tutto dovrà diventare l’altro e il suo volto, biblicamente il prossimo, e gli si stenderà intorno una cultura di pace”.
Si tratta di riscoprire il senso dell’accoglienza e della solidarietà, educarci, cioè alla reciprocità che ci rende progressivamente capaci di ascolto, di dialogo, di silenzio, di solitudine abitata dalla presenza dell’altro.
È un notevole cambiamento che viene chiesto a tutti, ma direi, in modo particolare, a noi laici, chiamati per vocazione a condividere la vita quotidiana della gente che abita le nostre città e i nostri territori. È vero, oggi esiste il territorio dell’isolamento, freddo e desolato e senza memoria o memorie, che dalla nostra presenza va trasformato in territorio vissuto, identificato, carico di futuro e di profezia, che è quello dell’uomo e della donna, delle relazioni significative, dove l’io si definisce con il noi, dove la terra abitata diventa spazio affettivo e relazionale, dove insieme costruiamo il senso della vita e dove ogni persona possa trovare pane e pace.
È in questa prospettiva che si impara a CONDIVIDERE. La condivisione dà la misura stessa della relazione: non può esistere una relazione significativa senza che ci sia condivisione.
Il condividere tocca gli aspetti più profondi della persona: chi condivide è partecipe della vita degli altri e partecipa all’altro la propria, in un rapporto di parità, in cui ognuno divide con l’altro le proprie energie, le capacità, i limiti, le debolezze, la gioia e il dolore.
Non è il rapporto “ io dò, tu prendi,” ma piuttosto il dire tra più persone: l’uno all’altro
“ entra nella mia vita, nella mia realtà di persona” e accettare per questo di cambiare, nel concreto e nel quotidiano. È un ricercare insieme agli altri la costruzione di qualcosa da condividere, qualcosa che dia senso alla mia vita e a quella degli altri e porti miglioramento alle persone attraverso un cambiamento delle strutture per renderle più umane, più a servizio della persona.
Non si devono pensare e fare grandi cose, ma essere attenti ai bisogni reali delle persone che con noi compiono un pezzo di storia.
Direi che la novità di oggi consiste nel dover vivere una presenza diversa e nuova nel nostro ambiente di vita avendo come obiettivo “ vivere lo stile evangelico per dire, con la vita, Dio all’uomo contemporaneo”.
Ciò richiede una attenzione continua ai cambiamenti socioculturali in cui siamo immersi, ai cambiamenti che avvengono in noi per poter vivere in novità di vita la nostra VOCAZIONE laicale che si concretizza nella consapevolezza dell’essere INCONTRO con l’altro e la relazionalità sta alla base della nostra presenza.
Non ci viene chiesto soltanto di FARE, di ORGANIZZARE, ma soprattutto di ESSERE fedele nel cambiamento con nuove modalità di presenza.
È vero che ciascuno di noi cambia: penso all’entusiasmo e alle motivazioni iniziali con le quali ci siamo buttati nell’accoglienza del progetto di Dio su di noi: essere sale, lievito, luce nel quotidiano è stato per ciascuno un desiderio profondo che ci ha fatto superare le difficoltà.
Gradualmente gli anni ci hanno fatto sperimentare la fatica del non essere riconosciuti per la nostra presenza apparentemente anonima, per la solitudine spesso non capita, per la non assistenza nella malattia, per la non sicurezza della vecchiaia assistita……
Ho letto con molto interesse e stupore un articolo, comparso nella rivista “Credere oggi” della teologa Lilia Sebastiani dal titolo “ Per una spiritualità del consumo e della soddisfazione”. Non avevo mai sentito parlare di Spiritualità del consumo, ma di consumismo, logicamente in senso negativo.
“ …Oggi è realmente una scelta spirituale la fuga della “anima bella” fuori della civiltà compromessa con il fattore-denaro? Anche ammettendo che quest ’anima (singola) trovi una sua felicità e realizzazione nella forma di vita extra-economica che sceglie per sé, vorremmo chiederci: una vita extra- economica non è anche, in qualche misura, extra- sociale? E può esserci una scelta autenticamente spirituale senza solidarietà?
Forse oggi l’anima bella è soprattutto quella che accetta il confronto con le cose del mondo: che accetta di “ sporcarsi le mani”, si diceva volentieri fino a qualche tempo fa, ma la prospettiva sottintesa non ci sembra soddisfacente, anche perché contiene sempre un implicito giudizio negativo ( mondo = sporco) .
La scelta non è quella di sporcarsi le mani o il cuore, ma di purificare il mondo fino a renderlo capace di “trasparenza”, fino a rendere leggibile in esso il progetto di Dio.
Occorre dunque anche riconciliarsi con i beni, con le cose: non per dimenticarsi in esse, non per identificarsi con il mondo, non per smarrire la propria innata “verticalità”, ma per rendere la logica della Redenzione sempre più riconoscibile e operante in tutti gli ambiti del vivere terreno”.
Mi pare questa una lettura molto significativa per noi, membri di Istituti Secolari, una proposta di riflessione e di apertura nuova, dalla quale oggi non si può prescindere, se vogliamo veramente ricercare un creativo, ma fedele modo di essere presente nella storia mettendo al centro la PERSONA e non le cose, ma usare i beni senza dipendere o essere da essi consumati.
E’ una pista di ricerca.
COME VIVERE LA VOCAZIONE OGGI - NELLA PROSPETTIVA EDUCATIVA
Rimanere in stato di conversione continua: una nuova mentalità. Mai dire …tanto ormai….ma vivere con le antenne alzate per captare modalità nuove di presenza e idonee alla nostra età e condizione:
1) Pensare una Chiesa povera e umile, che si affida alla forza del Vangelo: “ la Chiesa stessa non è che il mondo convertito” ( Moioli 1990). Noi siamo chiesa, noi siamo mondo sempre.
- No alla fuga dal mondo
- No alla conquista del mondo
- Sì alla conversione del mondo a partire da noi: vivere una testimonianza credibile: il nostro stile di vita, la nostra umanità, suscitano una domanda di senso in coloro che ci incontrano?
- Con la povertà di mezzi: usare i mezzi del mondo nella misura in cui sono utili, ma abbandonarli qualora facessero dubitare della sincerità della testimonianza ( Dianich)
2) Guadagnare “la sapienza”
- Abitare la nostra sensibilità ed evangelizzarla “sensi spirituali, perché recettivi della Grazia vivificante dello Spirito”.
- I sensi ci permettono di comunicare con l’esterno nelle due direzioni; accogliere il dono di DIO e ridonarlo.
- Coltivare la relazione con l’Unico necessario
° dimensione contemplativa e comunionale con Gesù Cristo, come fondamento dell’essere nel mondo senza perdere il “sapore”
° come fondamento all’accettazione del “rischio della condivisione” ( Moioli 91)
Abitare la nostra umanità e rimanere in contatto profondo con l’umanità di Cristo ci trasforma interiormente, ci rende sapienti e perciò prudenti, donne e uomini in grado di “portare ad efficacia di vita” (GS 42) la fede e la carità che ci deriva dall’accoglienza del vangelo.
Ognuno di noi farà proprio l’invito che Gesù rivolge a Maria Maddalena ( Giovanni 20) “sVa dai miei fratelli”, vivi in mezzo a loro e con la tua testimonianza annuncia il Dio che si è rivelato in Gesù Cristo.
N. CMIS: Il testo originale è in italiano
Elementi per una sintesi del Congresso
Giorgio Mario Mazzola
Concludiamo il nostro Congresso cercando di raccogliere alcuni stimoli emersi in queste giornate e provando a trarre qualche indicazione di percorso.
Cominciamo da Assisi, da S. Francesco.
Ricordo che durante un incontro con la CMIS, l’allora Segretario della Congregazione, Mons. Gardin, ascoltando e cercando di comprendere il significato profondo della vocazione degli Istituti secolari, concludeva con questa analogia: “S. Francesco, quando volle costituire un ordine di frati, li volle Minori, cioè piccoli”. Piccoli, ma necessari per rinnovare la Chiesa, che in quel tempo soffriva a causa di un grave sbandamento, per riportare la Chiesa alla sua unica missione, quella di essere testimone dell’amore di Dio.
Dopo tanti secoli, pare di essere nelle medesime condizioni: la Chiesa, che pure sta vivendo un certo sbandamento – e non mi riferisco semplicemente a ciò che capita di leggere nei titoli dei quotidiani, che semmai può indicare un sintomo di un disagio più profondo, una certa confusione di cui più volte ha parlato il Papa – la Chiesa, dicevo, deve eliminare tante sovrastrutture che ormai rappresentano un peso inutile e, in qualche caso, persino dannoso, e deve tornare a prendere contatto vivo, e perciò autenticamente umano, con la parola del Vangelo, e avendo fiducia solo in questa. Se ci si pensa bene, e se ci si guarda attorno, è un’opera immensa di rinnovamento. In questo rinnovamento, gli istituti secolari devono fare la loro parte. Piccoli, ma necessari.
Qual è questa parte, che non è lecito abbandonare? Bisogna che ci riflettiamo bene, non è detto che possiamo dirci fedeli a questo compito solo per il fatto che siamo qui.
Essere fedeli, va ricordato, per noi significa essere fedeli a consacrazione e secolarità, ad una piena consacrazione e ad una piena secolarità.
Partiamo dalle parole del Papa. Ancora una volta abbiamo fatto esperienza di una parola del Magistero alta, densa, impegnativa.
È sempre il Concilio a ricordarci come la relazione tra Chiesa e mondo vada vissuta nel segno della reciprocità, per cui non è solo la Chiesa a dare al mondo, contribuendo a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia, ma è anche il mondo a dare alla Chiesa, così che essa possa meglio comprendere sè stessa e meglio vivere la sua missione.
(cfr. Gaudium et Spes, 40-45)
Ho riletto i numeri di Gaudium et Spes citati nella lettera del Papa, e devo dire che l’espressione della lettera a noi indirizzata mi sembra ancora più efficace. In ogni caso, in questo scambio tra Chiesa e mondo, noi dobbiamo partecipare di entrambi i flussi. Noi, per così dire, stiamo da entrambe le parti. Questa reciprocità, di cui si parla qui, noi dobbiamo sentirla nelle nostre vite. Facendo attenzione, però, a capirci bene: non si tratta, per noi, di agire da messaggeri, come se dovessimo prendere da una parte e portare dall’altra. Questa reciprocità noi la viviamo sulla nostra pelle, perché in quel mondo ci stiamo. È la nostra vita, purché nel mondo ci si stia davvero, ad essere attraversata continuamente da quel flusso.
Poi, così ci ha chiesto il Papa:
Si deve essere capaci di lasciarsi interrogare dalle complessità che il mondo oggi attraversa, di restare aperti alle sollecitazioni provenienti dalla relazione con i fratelli che incontrate sulle vostre strade, di impegnarvi in un discernimento della storia alla luce della Parola di Vita. Siate disponibili a costruire, insieme a tutti i cercatori della verità, percorsi di bene comune, senza soluzioni preconfezionate e senza paura delle domande che restano tali.
Prima di provare a trarre qualche indicazione da queste parole, vorrei segnalare che l’insegnamento del magistero sugli istituti secolari, in particolare quello dei Papi, si conferma di grandissimo valore e contenuto. È come se la Chiesa continuasse a ripeterci, con forza: guarda che questa vocazione è importante! È importante! Ma noi... noi non ci crediamo fino in fondo. Non ci fidiamo a consegnare (uso un termine importante della relazione di P. Gamberini) tutto il significato della nostra vita all’esistenza comune. Cerchiamo scorciatoie per renderla importante in altro modo.
Dice il Papa: “Senza paura delle domande che restano tali”. Ci vuole coraggio a dire così! Che bello se i nostri Istituti si presentassero ai giovani in questo modo: noi non siamo qui, anzitutto, per fornire risposte (magari preconfezionate) ma per accogliere domande. Abbiamo bisogno di domande importanti perché dobbiamo continuamente fare l’esercizio di raccogliere domande. In particolare, quelle che vengono dal mondo non credente.
Il vangelo è fatto per essere inteso da tutti gli uomini di buona volontà. Se questo non succede, dobbiamo allora interrogarci sui modi con i quali lo presentiamo. Dovremmo sapere entrare ogni tanto nel cuore del non credente – e non sarebbe difficile se avessimo il coraggio di ascoltare il non credente che sta dentro di ciascuno di noi – per vedere quanto siamo ridicoli, a volte, e insulsi, con le nostre liturgie contraffatte, con le nostre sentenze moralistiche, con le nostre iniziative ornamentali, per non parlare di quando, addirittura, contraddiciamo il vangelo. Il Papa ci ha chiesto di abbracciare con carità le ferite del mondo e della Chiesa, perché… sono le nostre ferite.
L’ascolto del mondo non credente dovrebbe essere un compito che gli istituti secolari devono sentire loro vicino. Ma perché quel mondo sia ascoltato, bisogna che ci siamo realmente dentro.
P. Gamberini ci ha mostrato che in Gesù il santo, il puro, la vita, hanno incontrato il peccato, l’impuro, la morte, e solo così la vita ha potuto fluire, scorrere. La nostra salvezza si è originata propriamente così: quando il sacro ha raggiunto il profano. Bisogna che riflettiamo su questo. Come dicevo già immediatamente dopo la relazione, non vorrei qui aggiungere altro. Ma dobbiamo riflettere.
Quando diciamo che la nostra povertà, castità ed obbedienza deve essere vissuta in modo rispondente alle esigenze della secolarità, intendiamo che deve accogliere quella intenzionalità di Dio, ed il criterio con cui quelle virtù devono essere vissute e verificate è questo: perché tutti “abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10b).
Abbiamo parlato di linguaggio: i nuovi media stanno accelerando l’evidenza che il linguaggio ecclesiale rischia di risuonare a vuoto, quando in quel linguaggio non dovesse scorrere più la vita (in termini evangelici potremmo dire il sangue, cioè una vita piena). Gesù parlava con autorità perché era il Verbo fatto carne, in Lui Parola e Vita coincidevano. Interessante il racconto della prof.ssa Gerl Falkowitz a proposito di quella iniziativa di preghiera rivolta agli atei: ci diceva che quando al vangelo si aggiungevano le nostre parole, i non credenti erano meno interessati; quando si è letto il vangelo direttamente, gli atei si sono sentiti interrogati. C’è appunto un certo linguaggio – e un certo modo di pensare la Chiesa – che si sta avviluppando su sè stesso, che non incide più, che non riesce più a trasmettere la vita, perché è lontano dalla vita.
Nella presentazione di Ivan Netto mi ha colpito un’espressione sintetica di un’indagine sui giovani: “non sono disposti ad ascoltare messaggi che vengono dall’alto, ma sono disposti ad ascoltare uno come me”. Gesù ha incontrato le persone dove erano, si è fatto uno come loro. Un intervento in sala diceva: Madeleine Delbrel riteneva di non aver fatto grandi cose se non amare la gente con la quale viveva.
Piera Grignolo, nella sua relazione, ci ha detto che non è così scontato incontrare l’altro. Bisogna imparare. Un altro che è sempre più altro. Non standogli davanti, ma a lato. Non è impresa da poco. Nella conversazione che ha seguito la sua relazione, P. Gamberini ci diceva che la prima forma di esorcismo è l’ascolto, il dare spazio all’altro perché possa esprimere la sua esperienza.
Spazio: questa è una parola che ci deve appassionare. In questo incontro con l’altro, noi dobbiamo imparare a creare spazio, anziché riempirlo, che è ciò che facciamo di solito. Sapendo che, secondo il mistero cristiano, nel momento in cui, in questo incontro, ci fosse qualcuno che deve pagare e deve morire – deve, appunto, cedere spazio – quel qualcuno, siamo noi.
La Chiesa deve imparare a non dire sempre il massimo possibile, ma a dire il minimo necessario, perché sia chiaro che “questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi” (2 Cor 4,7). Noi dobbiamo smetterla di comportarci da padroni dello Spirito. Dobbiamo, invece, avere la consapevolezza che Dio scrive la sua storia di salvezza sulla trama delle vicende della nostra storia (sono le parole del Papa). È la sua storia di salvezza, non la nostra. Il mondo non ha bisogno di faccendieri dello Spirito (ci diceva il Prefetto che rischiamo di morire sotto il peso delle nostre opere), che usano la fede come un manuale di risposte preconfezionate, ma di cercatori della verità – cito ancora le parole del Papa:
Misura della profondità della vostra vita spirituale non sono le tante attività (…) ma piuttosto la capacità di cercare Dio nel cuore di ogni avvenimento. (…) Solo in forza della grazia che è dono dello Spirito potete scorgere nei sentieri spesso tortuosi delle vicende umane l’orientamento verso la pienezza della vita sovrabbondante.
La Chiesa deve imparare anch’essa ad essere serva inutile – non sto dicendo uno sproposito, sono le parole di Gesù. Noi vogliamo un gran bene alla Chiesa, perciò la vogliamo bella, e fedele al Vangelo.
Grazie all’intervento della Prof.ssa Gerl Falkowitz, abbiamo anzitutto ricordato, nel caso ce ne fossimo dimenticati, che è necessario pensare la fede; manca, infatti, nei nostri ambienti una riflessione continua ed aggiornata, con il rischio che tutto sia lasciato alla sola emotività; vedremo se nell’Assemblea dei prossimi giorni sapremo indicare qualche percorso. La professoressa ci ha aiutato molto a comprendere la necessità di uno sguardo antropologico profondo, che mette il mistero cristiano nel cuore della questione fondamentale della vita: come userò questa vita? La devo tenere per me? Come posso uscire dalla paura di perderla? Sono domande che … ci mettono propriamente a lato dell’altro. Per questo, dicevo, dopo la sua relazione, che dovremmo porci, in modo aperto, questa domanda: qual è il compito del cristiano nel mondo? Se mettessimo al centro la vita, dovremmo concludere che noi siamo nel mondo non per fare le nostre cose, le presunte cose cristiane, ma per accettare fino in fondo questa tensione che la vita di ogni uomo e di ogni donna comporta, e provando, dentro di essa, ad essere testimoni di un significato che abbiamo contemplato. Il mondo ha bisogno di persone che guardino in faccia a queste domande e con esse sappiano, senza finzioni, fare i conti.
La sola mancanza di una vita è quella di non diventare santi: così ci diceva, in modo molto significativo e con grande forza, mons. Gérald Lacroix, ricordando la chiamata ad essere santi. Siamo entrati in un istituto secolare esattamente per questo. Ma questo non è un dono per noi, è per tutti, e l’appello alla santità esige di essere tradotto nel concreto. Noi dobbiamo aiutare l’impiegato, l’insegnante, la mamma, il papà, il fabbro, il sindaco, il malato… ma anche l’artista, lo sportivo, a rispondere: “Come posso farmi santo facendo l’impiegato, l’insegnante, la mamma...?” C’è appunto un nuovo modello di santità da preparare, perché il cristiano comprenda che si fa santo non prendendo distanza dall’impuro, dal profano, ma rendendosi presente, e santo, in mezzo a quella condizione. Gesù ci ha ottenuto la vita quando è venuto a contatto con l’impuro, con ciò che è malato.
Tutto nella Chiesa deve sostenere questo cammino di santità, perché il nostro modo di “far funzionare” la Chiesa è proprio questo. Pierre Langeron ci ha ricordato, con precisione, tutta la fatica di un cammino di riappropriazione del ruolo dei laici nella Chiesa. In questo cammino non deve però trovare spazio una “rivendicazione” del ruolo dei laici, quasi che questi chiedessero delle concessioni o delle deleghe. Quel tempo deve finire perché nella Chiesa ci si deve semplicemente rendere conto che il popolo di Dio è fatto di laici, e a servizio di quel popolo ci sono i ministeri, ad esso assolutamente necessari, della Parola, dei sacramenti, del discernimento, della preghiera incessante. Per questo motivo non farei, nella Chiesa, un “anno sul laicato”, perché mi parrebbe di trattare il laicato come una categoria: il laicato, infatti, è, fondamentalmente, il popolo di Dio; se nella Chiesa non ci si occupasse di esso, di che ci si occuperebbe? Di altro, sì, è possibile, ma con i rischi di tradire il vangelo che oggi, come sempre, sono sotto i nostri occhi.
Il Cardinale Prefetto ci ha ricordato il grandissimo valore della comunione e della necessità di respirare con tutta la Chiesa. Non dobbiamo guardare a noi stessi, ci ha ripetuto, non dobbiamo restringere il nostro sguardo al proprio, ma aprirci alla comunione. Colpisce quanto ci riferiva il Prefetto: l’origine di tante infedeltà nella vita consacrata nasce dalla poca comunione, dalla poca apertura. Vorrei quindi lanciare una richiesta, che, alla luce di queste parole, diventa un appello: abbiamo vissuto delle belle giornate di comunione qui ad Assisi, non lasciamo che restino un episodio isolato, cerchiamo di vivere insieme il cammino della Conferenza mondiale e ogni altra occasione di condivisione tra noi. Non chiudiamoci, per non rischiare di essere infedeli.
Ciò richiede una particolare vigilanza perché i vostri stili di vita manifestino la ricchezza, la bellezza e la radicalità dei consigli evangelici. Sono ancora le parole del Papa, che ci riportano alla necessità della trasparenza, e, come si diceva all’inizio, della fedeltà alla piena consacrazione e alla piena secolarità. Se fosse un gradino meno, non basterebbe. E se fosse un gradino meno, noi staremmo perdendo il nostro tempo. Il mondo ha bisogno della dedizione di tutta la nostra vita.
Concludiamo così il nostro Congresso. Abbiamo raccolto preziose indicazioni per il lavoro dell’Assemblea che si apre tra poco, ma, soprattutto, per aiutarci a vivere, e così mostrare quel dono straordinario che è la vita che abbiamo ricevuto.
N. CMIS: Il testo originale è in italiano
STATISTICA DEGLI ISTITUTI SECOLARI
ISTITUTI SECOLARI
- 214 riconosciuti
- 200 dipendono dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica (CIVCSVA)
- 4 dipendono dalla Congregazione per le Chiese Orientali
NUMERI TOTALI
Diritto pontificio | Diritto diocesano | Numero totale | Numero dei membri | |
---|---|---|---|---|
Femminili | 61 | 119 | 180 | 26580 (82,16%) |
Maschili laicali | 2 | 6 | 8 | 569 (1,76 %) |
Sacerdotali | 8 | 2 | 10 | 3987 (12,32 %) |
Con rami | 2 | 6 | 8 | 1216 (3,76 %) |
Totale | 73 | 137 | 210 | 32352 (100 %) |
Leggenda:
|
---|
TIPI DI MEMBRI
Donne | Laici uomini | Sacerdotali | Totale | |||
---|---|---|---|---|---|---|
Incorp. Definitiva | In formazione | Incorp. Definitiva | In formazione | Incorp. Definitiva | In formazione | |
25682 | 1713 (6,67 %) | 642 | 134 (20,87 %) | 3538 | 643 (18,17 %) | 32352 |
27395 | 776 | 4181 |
NUMERO DI MEMBRI PER ISTITUTO
Número de miembros | Número de institutos |
---|---|
- 10 | 8 |
11 a 20 | 16 |
21 a 50 | 52 |
51 a 100 | 51 |
101 a 200 | 50 |
201 a 500 | 21 |
501 a 1000 | 6 |
1001 a 2000 | 4 |
2001 - | 2 |